Opinioni & Commenti

La Corte europea e la Legge 40 tra superficialità e sguardo distorto

di Carlo Casini

La superficialità nasconde molto spesso la verità e serve ad ingannare. È il caso della recente sentenza pronunciata in primo grado dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Essa ha condannato l’Italia perché la Legge 40 non consente la diagnosi pre-impianto (DPG) nel caso di persone che vogliono ricorrere alla procreazione medicalmente assistita (PMA), ma temono di poter trasmettere al figlio una malattia ereditaria. La Legge sull’aborto italiana – ha scritto la Corte – permette l’aborto quando la diagnosi prenatale, effettuata durante la gravidanza, scopre una anomalia o una malformazione del figlio: non si vede perché non possa procedersi ad una DPG prima di trasferire in utero embrioni generati fuori dal seno materno, in modo da sopprimere quello malato e tentare di far nascere quello sano. Se un embrione deve essere eliminato meglio farlo prima piuttosto che dopo.

Messa così, sia pure nella logica perversa dell’aborto, la sentenza può sembrare a molti convincente. Ma la superficialità è grande. Già a partire dalla palese violazione delle regole procedurali, secondo le quali non si può presentare ricorso alla Corte Europea se prima non si sono esaurite tutte le vie giudiziarie interne, cosa che i coniugi Costa e Pavan non hanno fatto. Infatti, invece di rivolgersi ai giudici italiani, hanno fatto direttamente ricorso a Strasburgo. Ma la superficialità sostanziale consiste nel non aver considerato la grande differenza tra la diagnosi prenatale e la DPG. Il protocollo di quest’ultima prevede la formazione di molti embrioni (da 9 a 12), il prelievo di una o due cellule da questi embrioni giunti allo sviluppo di 6 o 8 cellule, l’analisi delle cellule prelevate, la distruzione degli embrioni presumibilmente «malati», il trasferimento in utero degli embrioni presumibilmente sani.

A parte il carattere programmaticamente selettivo ed eugenetico della pratica, bisogna sottolineare che nella DPG i figli uccisi sono molti: quelli distrutti deliberatamente (perché ritenuti malati); qualcuno di quelli sottoposti ad analisi (perché l’intervento invasivo fa morire qualcuno «sotto i ferri» e comunque indebolisce non poco l’embrione privato di una parte notevole del suo corpo, rendendone così più difficile lo sviluppo); i gemelli generati per scissione gemellare (perché le cellule prelevate sono totipotenti e quindi in grado di svilupparsi fino a divenire un intero corpo umano). È documentata, poi, una significativa possibilità di errore ed altresì la possibilità che le malformazioni originarie siano compensate o eliminate spontaneamente dall’embrione se lo si lascia sviluppare.

La differenza rispetto alla diagnosi prenatale (ecografia – amniocentesi) non è solo quantitativa, ma anche qualitativa, perché alla diagnosi negativa può seguire la cura e non sono poche le madri che proseguono la gravidanza nonostante l’accertamento di una malattia del figlio. Del resto la stessa Legge 194, nonostante la sua iniquità, non ha avuto il coraggio di scrivere che un figlio può essere ucciso perché ammalato e – sia pure ipocritamente – ha considerato come causa giustificatrice dell’aborto la malattia fisica o psichica della madre.

Nel procedimento dinanzi alla Corte avevamo indicato ben 10 differenze tra la diagnosi prenatale e la DPG. La Corte non le ha prese neppure in considerazione e si è limitata a scrivere una sola frase: «La nozione di bambino non potrebbe essere assimilata a quella di embrione». Non c’è qui spazio per indicare il gran numero di documenti nazionali e internazionali da cui si deduce il contrario (dalla stessa Legge 40 alla Convenzione americana dei diritti dell’uomo; dai pareri della Corte nazionale di bioetica italiana alla Convenzione sui diritti del fanciullo e ad alcune sentenze costituzionali). Basti ricordare che la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo ha sempre ripetuto che gli Stati hanno «un ampio margine di apprezzamento» riguardo alla definizione dell’inizio della vita umana e del conseguente diritto alla vita del concepito. Tutto questo è stato completamente ignorato dalla decisione che stiamo commentando. Giovanni Paolo II ha detto che «la cultura della vita comincia dallo sguardo». «Guardare» significa anche ragionare, discutere. La Corte di Strasburgo ha distolto lo sguardo.

Ci rallegriamo che il Governo italiano abbia palesato il proposito di presentare ricorso alla Grande Camera e abbiamo buoni motivi per ritenere che la sentenza di primo grado sarà annullata. Ma la decisione della Prima Camera evidenzia ancora una volta qual è il problema di chi voglia difendere la vita umana: costringere allo sguardo. Diviene così di ancor maggiore attualità l’iniziativa dei cittadini europei denominata «Uno di noi» resa possibile dall’art. 11 del Trattato di Lisbona. Essa vuole essere un grido dei popoli europei affinché si volga lo sguardo all’uomo nel momento della sua più estrema fragilità e lo si riconosca, appunto, come «uno di noi».