Opinioni & Commenti

La crisi delle diocesi non è solo una questione di numeri

Mentre si parla sempre più spesso del riordino delle diocesi italiane e della drastica riduzione del loro numero, decisamente eccessivo rispetto a quello di altri Paesi (da 226 passerebbero a 120), si rischia di perdere di vista la situazione reale in cui molte di esse oggi si trovano, evidenziando una crisi che forse riguarda, al di là dei singoli casi, il modello di diocesi come tale.

Le cause sono diverse. In concomitanza con i grandi processi in corso nel mondo attuale, anche le Chiese italiane risentono, da una parte, della tendenza ad abbattere confini e a fare rete che ha caratterizzato l’età della globalizzazione e ispirato i tentativi, pur problematici, di dar vita a strutture politiche sovranazionali, dall’altra del movimento, opposto ma coesistente, verso l’accentuazione dei particolarismi e dei localismi, che ha dato luogo in questi ultimi decenni alla disgregazione di grosse entità statali e sta tuttora alla base di forti spinte secessioniste.

Questa paradossale concomitanza tra le due spinte, apparentemente contradditorie, si riscontra anche a livello ecclesiale. Per quanto riguarda la prima, ormai da molti anni ha acquistato sempre maggiore importanza la Conferenza Episcopale Italiana, la cui voce e le cui prese di posizione hanno praticamente oscurato quelle dei singoli vescovi (per non parlare del lato finanziario – l’otto per mille – e delle direttive pastorali concrete contenute in sussidi come i catechismi, ecc.). Un fenomeno che mette in evidenza, anche nella Chiesa, la paradossale coesistenza della tendenza all’universalismo e di quella al particolarismo è quello dei movimenti. La Chiesa ha sempre salutato con gioia la fioritura delle aggregazioni spontanee che si sono sviluppate, in Italia come altrove, dopo il Concilio. Ma è innegabile che questa benefica espressione di vitalità spirituale ha avuto, come risvolto problematico, una maggiore indipendenza di parti consistenti del laicato dalle strutture territoriali, parrocchie e diocesi.

Le direttive a cui  i movimenti sono sensibili non sono solo – e forse nemmeno in primo luogo – quelle del vescovo, ma vengono da responsabili nazionali o addirittura internazionali che vivono altrove e che introducono nella vita della comunità diocesana i loro specifici progetti, più ampi e al tempo stesso più circoscritti di quelli diocesani. La stessa specificità sovra-diocesana si riscontra in stili di vita comune, di preghiera, di evangelizzazione, fortemente peculiari dei singoli movimenti, che mettono in secondo piano l’appartenenza alla diocesi. Per non dire che a volte queste diverse identità finiscono per entrare in confitto tra di loro o con i parroci, mettendo a dura prova lo spirito di fraternità che dovrebbe regnare in una diocesi. Ma soprattutto è la seconda tendenza di cui si parlava prima – il dilagare dell’individualismo e del particolarismo, dominanti nella cultura contemporanea e di cui i cristiani non sono immuni – a creare grossi problemi alla realtà diocesana.

Di fatto in molti casi i sacerdoti finiscono per considerarsi autonomi rispetto al vescovo e ai loro confratelli e, soprattutto se sono parroci, a operare – anche a fin di bene – seguendo i propri progetti. È stato notato da qualcuno – credo giustamente – che nelle nostre diocesi ci sono i presbìteri, ma non più i presbitèri, vale a dire le comunità presbiterali entro cui il singolo ministro ordinato dovrebbe da un lato ricevere nutrimento e sostegno spirituale, dall’altro sviluppare la propria ministerialità, in stretto collegamento con una visione d’insieme ispirata dal vescovo e maturata nel reciproco confronto.

Di questa drastica carenza di sinodalità alcuni ritengono responsabili i seminari, impegnati in una formazione troppo spesso incapace di educare a un sano spirito di  comunione spirituale e di cooperazione pratica, altri le condizioni della vita odierna, dominata da ritmi frenetici che non facilitano una distesa vita relazionale. Probabilmente sono vere entrambe le cose. Ci sono presbiteri che escono al seminario con l’atteggiamento di chi, anche in buona fede, si prepara ad essere il vescovo della propria parrocchia (quante volte si assiste a comportamenti, specie da parte dei preti  più giovani, che esprimono con i fatti la vecchia formula: «Qui comando io!»). Ce ne sono altri che scivolano in queste logiche perché pressati da un ritmo di vita pastorale che finisce con l’isolarli.

Quel che è sicuro è che le diocesi, quale che sia il loro numero, hanno estremo bisogno di riscoprire la loro identità profonda di comunità guidate dai rispettivi vescovi. Certo, anche questi ultimi si sono ritrovati a volte spiazzati dal moltiplicarsi dei compiti. Oggi un vescovo dev’essere un maestro e una guida spirituale (dovrebbe esserlo innanzi tutto, per i suoi presbiteri); una persona che sta tra la gente; un buon amministratore (quante diocesi assillate dai problemi finanziari!); un comunicatore efficace e avveduto; una personalità creativa, capace di additare piste nuove; un «politico» in grado di destreggiarsi nei rapporti con le autorità. Insomma, un superman. Come stupirsi che queste doti stentino a riunificarsi in un singolo essere umano?

Partendo da un sano realismo, che lascia a Dio il compito di fare miracoli, possiamo però chiederci se non sia possibile, a partire dalla diagnosi – non certo esaustiva, ma almeno indicativa – che abbiamo cercato di delineare, discutere sul futuro delle diocesi non solo ponendosi la questione di quante, ma di cosa esse debbano essere. Guardare in faccia la crisi sarebbe già un passo, forse, nella direzione giusta per superarla.