Opinioni & Commenti

Le diverse e ambigue forme di schiavitù

I bambini che in Pakistan cuciono con 18 metri di filo sintetico e settecento punti di sutura i trentadue pezzi di un pallone impiegando tre ore al prezzo di nemmeno 50 centesimi. Quelli che per due dollari al giorno sgusciano gamberetti con le mani piagate da ferite inguaribili a forza di tenerle dentro il ghiaccio e l’acqua salata. Il bambino del Bangladesh che viene ricompensato con la secentesima parte del prezzo della camicia che verrà venduta negli Stati Uniti. Le bambine che in India hanno le dita sanguinanti e il sangue avvelenato dalle tinture a forza di annodare tappeti per quindici ore al giorno. I bambini soldato che in Sierra Leone sono stati costretti a bere il sangue mescolato con la droga per imparare ad uccidere. Questi sono solo alcuni degli episodi di schiavitù che nel nostro tempio hanno fatto scalpore.

Eppure la schiavitù continua. Le varie organizzazioni internazionali calcolano in 40 milioni le persone che ancora sono in condizioni di schiavitù nel mondo anche se il confine fra lo sfruttamento e la schiavitù vera e propria è sempre molto labile e la riduzione di fatto in schiavitù può assumere le forme più diverse e ambigue. I bambini ad esempio, come topi a cui bastano buche più piccole degli adulti, possono essere messi a lavorare nelle miniere della Cambogia come una volta lo erano nelle zolfare siciliane. Oppure nelle piantagioni da thè nello Zimbabwe con il pericolo di artrosi, o nelle fabbriche di vetri in India con il rischio di fibrosi polmonare. Possono essere mandati a mendicare nelle città  perché fanno più cassetta o impiegati a frugare cibo nelle montagne di rifiuti in America Latina dove si infilano meglio. Possono essere adoprati come corrieri di droga perché meno sospettabili e punibili. Possono essere usati in Estremo Oriente come oggetto di pornografia e di pedofilia nel cosiddetto turismo sessuale. Possono essere adibiti a pastori di greggi, a lucidatori di scarpe e perfino a fantini di cammelli.

Le donne possono essere messe a lavorare quattordici ore al giorno con una paga equivalente a 30 euro al mese  nelle quattromila  fabbriche che nel Bangladesh producono vestiti per l’Occidente e in condizioni quasi simili in Malaysia, Sri Lanka, Thailandia. Possono essere considerate praticamente schiave se sono  domestiche che in Arabia Saudita sono al lavoro ventiquattrore su ventiquattro, spesso oggetto di violenze e talvolta anche di stupri. Possono definite schiave le ragazze che in Africa sono adescate con la promessa di un lavoro onesto e poi avviate alla prostituzione.

Ci sono alcune zone in cui sopravvive la vera e propria schiavitù antica per un retaggio millenario come ad esempio in Mauritania. Ce ne sono altre in Africa, in India, ad Haiti in cui è ancora praticata la remotissima usanza della schiavitù per debiti. Ed altre, come per esempio il Myammar, in cui l’esercito può imporre il lavoro coatto.

Ma nel nostro tempo le nuove schiavitù trovano terreno favorevole soprattutto laddove la legalità è più cancellata, cioè in caso di guerra, di terrorismo e di migrazione. In Nigeria la setta Boko Haram tende a fare schiave le donne appartenenti a minoranze sulla base di un fondamentalismo che ritiene la schiavitù dell’infedele legittimata dall’islam. Perfino prima e durante la traversata del Mediterraneo le donne migranti,  sprovviste di qualsiasi fonte di sostentamento e permesso di soggiorno, possono essere ricattate a fini di violenza e di sfruttamento.In genere a livello internazionale si ritiene che i tre quarti della schiavitù sia oggi concentrata in nove stati: Cina, Pakistan, Nigeria, Etiopia, Russia, Thailandia, Repubblica del Congo, Birmania, Bangladesh.

Ma attenzione a dire: allora noi ne siamo fuori. Appena ci si inoltra nel territorio al confine fra sfruttamento e schiavitù è difficile trovare parti del mondo innocenti. Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro ci sarebbero anche in Europa ben 530mila extracomunitari sfruttati  in agricoltura, nella silvicoltura e nella pesca e altri 460mila sfruttati nelle costruzioni e nelle manifatture. I locali dove si lavora, si mangia e si dorme senza uscirne mai  come una volta nelle latomie di Siracusa, sono tipici dell’Asia.

Nell’aprile dell’anno scorso a Dacca (Bangladesh) nel crollo di un edificio di otto piani zeppo di stoffe infiammabili morirono centinaia di operaie e di operai che per una cifra equivalente a trenta euro al mese  non uscivano mai  dal loro laboratorio prigione . Ma tre anni fa anche a Barletta per l’incendio di una maglieria in cui si lavorava a 4 euro l’ora morirono 4 donne e nel novembre dell’anno scorso morirono a Prato in un edificio simile dove si lavorava, si mangiava e si dormiva  per duecento euro al mese sette  persone.

Il Papa nel suo messaggio per la pace di quest’anno ha messo al centro della sua attenzione il dramma della schiavitù. Per debellarlo ha chiesto misure di prevenzione, di repressione e di solidarietà globale e per la prima volta in un messaggio pontificio si sono chieste anche misure di boicottaggio. Finora erano solo associazioni  come Operation Push, Infact, Mani Tese, Gocce di Giustizia, Granello di Senape che mettevano in guardia dal compare i prodotti su cui c’era il sospetto che fossero il risultato di un lavoro di schiavitù. In questo senso tutti potremmo essere non solo più interessati, ma anche  più attenti e  più responsabili. Forse anche noi abbiamo giocato con uno di quei palloni e mangiato di quei gamberetti di  cui abbiamo parlato all’inizio. E perfino guardando il tappeto del nostro salotto potrebbe coglierci l’inquietudine di vedere le mani, grandi o forse piccole, che milioni di volte lo hanno annodato.

Il Messaggio integrale del Papa