Opinioni & Commenti

Nobel per la pace a Obama, un azzardo che fa sperare

di Riccardo Moro

Nobel per la pace a Barack Obama. Sorpresa, perplessità, consensi: anche il vecchio Fidel Castro, dopo mesi di silenzio, ha voluto far conoscere la sua approvazione. Più isolate le critiche: il leader venezuelano Chavez, i talebani, i repubblicani americani che in questo periodo attaccano indistintamente ogni cosa riguardi il presidente. Perplessità infine da parte di chi ritiene il premio prematuro o incoerente la posizione di Obama sull’aborto col suo impegno per la pace.

Osservando senza pregiudizi, il premio Nobel può apparire un azzardo. Obama ha avuto troppo poco tempo. Le sue intenzioni sono chiare e sane, ma potrebbe fallire. Celebrarle oggi potrebbe esporre a qualche imbarazzo domani e delegittimare l’autorevolezza del Premio per promuovere la pace. Inoltre, se sul piano internazionale il Nobel rafforza Obama, su quello interno potrebbe indebolirlo. Per la destra americana il Nobel è un affare europeo e di sinistra. Riceverlo conferma le accuse che questa parte rivolge al presidente: non lavora per gli interessi americani e segue un’agenda che conviene ad altri screditando il Paese. Anche per questo nel testo pubblicato nei giorni scorsi Barack Obama insiste sulla sua figura di presidente Usa e sul «ruolo dell’America».

I membri del comitato che attribuisce il Nobel non sono degli sprovveduti e se guardiamo alle scelte degli ultimi anni possiamo riconoscere le loro intenzioni. Per tre volte in nove anni il premio è andato all’Onu o a una sua agenzia. In un contesto di globalizzazione, sembrano voler dire a Oslo, la sola opzione per tutelare la pace è il multilateralismo. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla sua sistematica delegittimazione. La delirante dottrina della guerra preventiva, gli attacchi militari lanciati senza il consenso Onu, le prove false presentate al Consiglio di Sicurezza, i contributi finanziari non pagati, le campagne di discredito su ogni vulnerabilità del sistema Onu (che peraltro non mancano). Obama propone uno stile opposto che vede l’Onu e il multilateralismo centrali nella politica internazionale. Il suo è un altro Nobel al multilateralismo.

Le motivazioni parlano di «straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». In questo senso non è un premio alle intenzioni. In piena campagna elettorale Obama lascia gli Usa per spiegare all’estero che la politica del suo governo sarebbe stata improntata al dialogo. Da Presidente, con i discorsi in Turchia e al Cairo, apre al mondo e alla cultura islamica. Invia gli auguri al popolo iraniano per il Capodanno. Cestina, di fatto, la lista degli «stati canaglia». Mantiene in pianta stabile un inviato in Medio Oriente. Annuncia il ritiro militare dall’Iraq e cerca concertazione internazionale sull’Afganistan. Promuove il G20 rispetto al ristretto G8. Pronuncia un memorabile discorso a Praga e cinque mesi dopo fa firmare al Consiglio di Sicurezza la storica dichiarazione sul disarmo nucleare. Tutto si può dire dell’impegno internazionale di Obama tranne che sia velleitario o di facciata. Se il premio è all’iniziativa politica è meritato. Vedremo se sarà feconda. Per ora ci sono ragioni per sperare, basti l’esempio dell’Iran che proprio in questi giorni offre un’importante disponibilità sul nucleare, dimostrando che la politica della mano tesa può essere efficace.

Guardando al di là dell’iniziativa diplomatica, si riconoscono nell’azione di Obama altri due impegni. Il primo è quello contro la crisi con cui ha proposto regole e iniziativa pubblica, chiarendo che l’economia è per l’uomo e non viceversa. Il secondo è per la riforma sanitaria. Garantire il diritto alla salute a tutti i cittadini, finanziando la spesa con la contribuzione fiscale, è in Europa fondamento della vita comunitaria nazionale. Non così negli Usa dove ampi settori dei repubblicani stanno ostacolando in ogni modo questo obiettivo. Le politiche economiche, sociali e internazionali del presidente Obama sembrano offrire una coerenza che richiama l’eco della Populorum Progressio in cui papa Montini affermava che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace»: si costruisce la pace servendo ogni dimensione della vita umana.

Abbiamo accennato alle perplessità. La prima riguarda il Sud del mondo. Obama ne ha parlato, ma non ha ancora fatto molto. Non si può tardare. La seconda è la questione dell’aborto. Benedetto XVI scrive nell’ultima enciclica che non si può essere aperti alla vita in modo selettivo, escludendo alcune categorie di persone dai diritti universali. In questo senso la Chiesa richiama chi opera per lo sviluppo e la pace a non dimenticare chi ancora non è nato, ma già esiste. È un richiamo doveroso cui corrisponde nel caso di Obama una  posizione dialogante e non pregiudiziale.

Complessivamente il premio a Obama, così inatteso, offre nuova energia per il futuro. Guardando avanti possiamo scegliere tra la critica senza quartiere e la speranza. Chi scrive preferisce la seconda.