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Obama, otto anni in chiaroscuro

«Lascio un paese migliore di otto anni fa», ha detto Obama facendo il bilancio degli otto anni della sua presidenza. E in buona parte questo giudizio non è una vanteria di occasione. Giunto al potere quando gli Stati Uniti erano in piena recessione per la grande crisi che loro stessi avevano provocato il primo presidente nero alla Casa Bianca ha fatto uscire il suo Paese dalla crisi prima e meglio di ogni altro Paese.

Dal 2010 al 2016 il pil americano è tornato a crescere in media del 2,1%, cioè più del doppio della media europea e quasi il doppio della stessa Germania. Nello stesso periodo la disoccupazione è stata dimezzata dal 10 al 5% mentre in Europa praticamente raddoppiava. E va detto subito che Obama ha ottenuto questi risultati proprio perché ha adottato una politica di spesa e di espansione mentre l’Unione Europea soffocava dentro la cura disastrosa dell’austerità.

Sotto la presidenza Obama il debito pubblico è cresciuto di quasi quaranta punti dal 72,8% al 108,2% del Pil. In termini nominali il debito pubblico americano si è addirittura moltiplicato di quattro volte da 5.632 a 20.093 miliardi di dollari mentre in Europa il peccato che non si perdona a nessuno è quello di aumentare il proprio debito di quaranta-cinquanta miliardi di euro. Contemporaneamente Obama iniettava nella economia americana quasi 1.500 miliardi per investimenti soprattutto in infrastrutture e venti miliardi per aiutare le case automobilistiche General Motors e Chrysler che stavano per dichiarare bancarotta non rinunciando anche ad un deciso interventismo statale per sostenere la domanda e per salvare le aziende in difficoltà.

È doveroso aggiungere che questa crescita della economia americana non ha ridotto ma semmai ha aumentato le disuguaglianze interne anche come conseguenza generale della globalizzazione. Anche nel Paese più ricco del mondo un americano su sette è ormai povero. Anche se Obama ha ritoccato l’aliquota massima fiscale dal 35 al 39,25% e ha portato il salario minimo a 7,25 dollari l’ora, buona parte degli otto milioni di nuovi occupati sono ricompensati con questa paga oraria mentre ben 27 milioni di americani oggi lavorano part time anche contro la loro volontà.

Obama ha poi il merito di avere introdotto l’assistenza sanitaria per venti milioni di americani che ancora ne erano privi. Si trattava di una misura importante che purtroppo il suo successore si prepara a smantellare anche se il cosiddetto Obamacare lasciava ancora senza assistenza altri dieci milioni di americani e un sistema che prevede l’assicurazione con una compagnia privata rendeva particolarmente costosa e in parte impopolare questa assicurazione per le singole famiglie.

Più in chiaroscuro appare invece il bilancio di Obama in politica estera. Il presidente, degno del Nobel della Pace appena eletto più per quello che si pensava che facesse che per quello che aveva fatto, ha ottenuto due importanti risultati positivi riaprendo dopo più di mezzo secolo di embargo i rapporti con Cuba e concludendo un accordo molto importante sul nucleare con l’Iran che può impedire la proliferazione atomica nella regione. Obama ha poi cercato di chiudere il capitolo delle guerre ventennali dell’Afganistan e dell’Iraq riportando in patria i 180 mila soldati americani che, al momento del suo ingresso alla Casa Bianca, erano sui campi di battaglia anche a costo di lasciare i paesi occupati ancora in preda al caos e permettendo nel frattempo ai droni di combattere al posto dei soldati americani non solo in Afganistan e in Iraq, ma anche nel Pakistan, in Libia e nello Yemen. Contrariamente alle promesse Obama ha poi solo sfoltito, ma non chiuso il carcere di Guantanamo dove da più di quindici anni marcisce Mohammed Atta, il capo dell’attentato alle Torri Gemelle, in attesa di un processo che non ci sarà mai.

Di fronte alle primavere arabe, dopo averle incoraggiate soprattutto nel suo famoso discorso del Cairo del 2009, Obama ha dovuto registrare il loro fallimento e alla fine districarsi in un mare di contraddizioni fra gli antichi regimi e i nuovi fondamentalismi che cercavano di sostituirli. In Egitto, dopo avere incoraggiato la caduta di Mubarak, ha poi dovuto appoggiare il ritorno di un militare al potere al posto di un governo democraticamente eletto. In Libia, dove Obama alla fine si è unito alla decisione avventata di Sarkozy e di Cameron di usare l’aviazione per eliminare Gheddafi, ha dovuto scoprire che il paese era stato infilato in una alternativa ancora peggiore fra il caos e l’Isis. Anche in Siria l’appoggio anche finanziario dato all’inizio agli oppositori di Assad ha dovuto poi registrare la presenza dei simpatizzanti dell’Isis fra gli insorti con alla fine una rinuncia a intervenire in un senso o nell’altro lasciando libero il campo all’interventismo di Putin. Nel frattempo si è sviluppato il califfato islamico con, per suo riflesso, il terrorismo interno nei paesi occidentali.

Nel suo discorso di addio Obama ha detto anche che lascia una America «più rispettabile». Ma questo giudizio purtroppo non vale per l’area oggi più turbolenta e più pericoloso del pianeta, cioè per quel Medio Oriente dove Putin ha riempito con determinazione e violenza il vuoto determinato dalle incertezze e dalle contraddizioni di Obama.