Opinioni & Commenti

Primo maggio di sofferenza, soprattutto per il lavoro giovanile

Nonostante gli sforzi del governo italiano e della Banca centrale europea, la situazione del mercato del lavoro nella fascia mediterranea dell’Unione resta pesante. Alla festa del Primo maggio arriviamo dunque anche quest’anno in modo dimesso, non molto diversamente dagli ultimi anni.

Secondo i dati più recenti il tasso di disoccupazione complessiva è dell’11,7%. È un risultato certamente negativo ma non catastrofico, se teniamo presente che stiamo uscendo da quella che molti osservatori hanno definito la più grave crisi economica del dopoguerra (secondo alcuni addirittura la peggiore di sempre). Per fare un paragone, durante la Grande depressione gli Stati Uniti toccarono nel 1933 un livello di disoccupazione del 25%.

Se però scendiamo nel dettaglio e andiamo a spezzare il totale, emerge un dato, questo sì, davvero catastrofico: la disoccupazione giovanile al 39,1%, un livello che mette in ombra il picco storico della Grande depressione americana. I problemi del lavoro in Italia sono molti e toccano più o meno tutte le categorie e tutte le fasce d’età ma il vero nodo oggi sono i giovani. Dal punto di vista del singolo la disoccupazione è sempre un dramma, a qualunque età, ma per il paese non tutti i disoccupati sono uguali e non tutte le forme di disoccupazione sono ugualmente dannose. La disoccupazione giovanile è particolarmente dannosa sul piano economico e sociale. Gli effetti sociali sono ben noti: ritardi nella formazione della famiglia, effetti negativi sulla natalità, cambiamenti, non sempre per il meglio, negli stili di vita con l’emersione di fenomeni quali tardivo distacco dalla famiglia d’origine, precarietà, coabitazione, che solo qualche decennio fa in Italia erano sconosciuti. Meno noti ma non meno dannosi sono gli effetti economici. Con il sistema contributivo più tardi si comincia a lavorare, più tardi si arriva a una pensione che consenta di sopravvivere: la disoccupazione dei giovani oggi comporta la necessità di lavorare in età avanzata domani. È di questi giorni il lancio della campagna delle «buste arancioni» da parte dell’Inps per la sensibilizzazione pensionistica della popolazione (il motto stampigliato sulla busta è significativo: «Progettare il futuro»). Dei problemi pensionistici che incombono su coloro che ritardano l’entrata nel mercato del lavoro si comincia dunque a parlare e pian piano a prendere consapevolezza. Più subdolo e decisamente meno noto è un altro effetto negativo della disoccupazione giovanile. Essere disoccupati da giovani significa non accumulare competenze lavorative nel periodo in cui ciò deve avvenire, con il conseguente depauperamento del capitale umano del Paese – il nostro vero patrimonio – e con effetti negativi di medio-lungo termine sulla produttività e sulla crescita. A molti sfugge questa concatenazione piuttosto preoccupante di fatti.

Oggi c’è disoccupazione in primo luogo perché si cresce troppo poco ma, poiché la disoccupazione colpisce soprattutto i giovani, si stanno anche ponendo le premesse per una bassa crescita futura che a sua volta comporterà ulteriori problemi di disoccupazione. Come dire: oggi non stiamo bene sul piano dell’occupazione e domani forse staremo anche peggio. Un circolo vizioso che si gioca in buona parte sul lavoro giovanile che non c’è.

Le cause di questa situazione sono certamente più d’una e molte sono note: mercato del lavoro ingessato da rigidità istituzionali, assenza di politiche attive per il lavoro, scarsa efficienza dei canali del collocamento, carenza o assenza di una formazione professionale al passo con le esigenze produttive (un esempio virtuoso è in questo campo la Germania), e via dicendo. Poi ci sono le cause di sistema: fisco, pubblica amministrazione inefficiente, ecc. Queste deficienze senza dubbio sono tutte presenti e hanno tutte un impatto sul problema. Ma vale pena soffermarsi su una. Un giovane ottiene un lavoro essenzialmente in due modi: o sostituendo un lavoratore più anziano che si muove verso un’altra posizione (eventualmente va in pensione) o occupando un posto nuovo.

In un mercato rigido come il nostro la prima modalità è di fatto insufficiente a assorbire lo stock di giovani inoccupati. Occorre attivare la seconda modalità, ma questo richiede crescita economica e, se questa manca, come si è verificato nell’ultimo decennio, la disoccupazione giovanile esplode. La chiave di volta è dunque la crescita. Semplificando molto, quel che si è avuto in Italia negli ultimi anni è una politica di controllo del debito pubblico, imposta dall’Europa e subita dai governi che si sono succeduti. In parole semplici, da un certo punto in poi l’Italia ha dovuto stringere la cinghia, aumentando le tasse e riducendo la spesa pubblica: a tutti gli effetti ha dovuto attuare, volente o nolente, una politica economica recessiva che ha bloccato la crescita.

Il debito dunque è nello scenario attuale la causa ultima della mancata crescita e, a cascata, dell’elevata disoccupazione giovanile. Si noti che una parte consistente del problema è data dal debito pensionistico. Molte delle pensioni che si sono pagate in passato e si pagano ancora oggi sono troppo generose rispetto a quanto possiamo permetterci (si badi bene, in assoluto possono anche essere giudicate basse, ma questo non conta: sono alte rispetto alla sostenibilità). Facendo una semplificazione estrema, possiamo dire che le (relativamente) generose pensioni dei padri sono una causa della disoccupazione dei figli. E qui si manifesta un fatto inatteso, che la disoccupazione giovanile è un problema non solo per i giovani ma anche per i vecchi: se anche a causa della disoccupazione giovanile di oggi l’Italia non crescerà in futuro, come pagheremo le pensioni di domani? È sui giovani che l’economia italiana si gioca molto e sull’occupazione dei giovani il governo dovrebbe concentrare il massimo dello sforzo possibile.