Opinioni & Commenti

Quella concezione della globalità che mette a rischio la democrazia

L’uomo è diventato un essere animato anziché un essere con un’anima, una semplice frazione di una entità più grande come la nazione, l’umanità, la classe, un numero che come tutti i numeri può essere tranquillamente sottratto e scambiato con un altro. Anziché una individualità irriproducibile è diventato un pezzo standardizzato di cui esistono quanti si vuole pezzi di ricambio. La famosa battuta di Napoleone per cui bastava una notte d’amore dei francesi per rifabbricare gli uomini che erano morti in una sua battaglia è indice preciso di questa cultura. Quando la vita umana è svalutata può essere sacrificata a favore di qualsiasi cosa che la supera sia esso il genere umano che è più grande, il proprio stato che è più importante, il progresso in generale che è l’unica entità che sopravvive agli individui o l’economia che profitta solo a chi riesce in nome delle sue leggi e può ignorare il povero, proprio perché non è un essere prezioso come gli altri, ma solo un fallito che può anche chiudere come una azienda perdente nella logica di mercato.

L’altro concetto che nella modernità ha subito un travisamento sostanziale è il concetto stesso di libertà che pure si vuole nato in Europa e che oggi è sempre più inteso né più né meno come la possibilità di fare tutto quello che si vuole. Così nella scienza e nella tecnologia, sempre più potenti, non di rado è prevalso il principio che deve essere fatto tutto ciò che si può fare e viceversa, a cominciare dalla costruzione della bomba atomica e dai tentativi di creare una vita artificiale, una maternità artificiale, un genere sessuale artificiale. Eppure già Camus ricordava che la libertà non è una serie infinità di sì, ma anzi che la vera libertà comincia con un grande no che è la capacità tipicamente umana di distinguere il male e di liberarlo da sé. In fondo anche i dieci comandamenti non sono altro, nel loro insieme, che dieci «no», seppure con il rovescio di altrettanti «sì».

L’altra idea che sta cambiando più o meno rapidamente nella nostra società è l’idea di famiglia. Essa è stata intesa da sempre come unione fra uomo e donna che tende a durare una vita intera, come primo nucleo sociale che mette al mondo figli e li accompagna non solo nella loro educazione, ma anche nelle loro difficoltà, che conserva oltre la gioventù l’amore e la solidarietà che valgono quasi a maggiore ragione anche per l’anziano. Ma oggi sempre più spesso la famiglia è ormai intesa come contratto a termine che dura finché dura, come convivenza legata ai sentimenti che ci sono e non ci sono, come esperienza precaria che qualche volta ha timore anche ad avere figli e può finire molto prima che arrivi la vecchiaia. Così questo tipo di famiglia in cui l’individuo spesso non può contare su due genitori, su una moglie, su un marito o su un figlio, proprio quando se ne ha più bisogno, si diffonde proprio in un momento in cui la realtà intorno a noi sembra spingere in senso contrario. La impossibilità di trovare un lavoro remunerativo induce i giovani al contrario a restare in famiglia, a contare su di essa fino alla maturità e a dover ringraziare più la famiglia che lo stato, più l’amore che la politica. Al contempo l’aumento della vita media fa crescere sempre più il numero degli anziani che hanno sempre meno giovani dietro di loro, anziani soli, senza calore e senza supplemento d’anima intorno, che possono sostituire il coniuge che se ne è andato o figli che non ci sono mai stati solo con la badante o il ricovero non sappiamo fino a quando e per quanti.

È partendo da questi temi e dalla rivalutazione dei valori fondamentali che, nel suo discorso a Strasburgo (leggi qui), il Papa ha ripreso i motivi che sempre più ormai sembrano caratterizzare il suo pontificato. Prima di tutto la condanna della «cultura dello scarto» per cui la vita è abbandonata in un angolo quando non serve più o non serve ancora e cioè di fronte a «malati, malati terminali, anziani abbandonati, bambini uccisi prima di nascere».

In secondo luogo la constatazione dell’uomo ridotto ad individuo senza legami, a «monade» che soffre quella angoscia della solitudine che si vede sempre più «negli anziani», nei giovani «senza punti di riferimento o di opportunità per il futuro», «nel numero dei poveri sempre più numerosi delle nostre città», «negli occhi smarriti dei migranti».

Ed ancora è ritornata la definizione dell’Europa come una figura stanca, come una «nonna» non solo vecchia anagraficamente, ma vecchia anche perché monca di futuro, per la incapacità tipica delle persone vecchie di vivere al di là del giorno per giorno e di fare progetti di lunga durata come fare progetti lunghi quanto una vita lunga, vedere un domani nel mettere al mondo figli o pensare ad un lavoro per chi oggi è appena un ragazzo.

Infine il Papa, scendendo ancora di più sul piano politico, ha avvertito che la logica del mercato, ormai praticamente libera a livello mondiale e prevalente sulla logica della persona, rischia di ammazzare la stessa democrazia, perché i governi nazionali, anche quando lo vogliono, non hanno più i mezzi per guidare e correggere la propria economia. «Una concezione omologante della globalità – ha detto il Papa – colpisce la vitalità del sistema democratico». È una osservazione importante stranamente non ripresa da nessuno nemmeno quando in questi giorni tanto si è discusso di un grande calo di affluenza alle urne. Nessuno si è domandato se per caso la gente non va più a votare non solo e non tanto perché considera i propri rappresentanti incompetenti o corrotti, ma molto più semplicemente perché li considera, al di là delle loro promesse e delle loro parole e persino della eventuale loro buona volontà, impotenti e inutili di fronte ad una crisi che è l’unica cosa che rimane mentre vanno e vengono i governi.