Opinioni & Commenti

Se la «società liquida» rottama pure il matrimonio

di Domenico Delle Foglie

Parliamo tanto di famiglia, giustamente, ma facciamo fatica a occuparci di matrimonio. Vittime anche noi di quella sindrome di Stoccolma tipica della cultura contemporanea che, per non tradire la sua presunta modernità, finisce per delegittimare le istituzioni. Tutte portatrici di una limitazione della libertà individuale, autentico totem dei tempi moderni. Ma per garantirsi il futuro, una società ha il dovere di guardare in faccia la realtà e di valutare con onestà intellettuale lo stato delle cose e i valori in gioco.

In questa prospettiva non può essere derubricato come un accidente della storia italiana il crollo dei matrimoni (indifferentemente civili e religiosi). Il nostro Paese è fanalino di coda in Europa con i suoi 3,6 matrimoni annui ogni mille abitanti.  Pensate che solo nel 1973 il tasso annuo dei matrimoni era di 7,6 su mille abitanti. Più del doppio di oggi. Nel 2010, fonti Istat, sono stati celebrati in Italia solo 216 mila matrimoni, 15 mila in meno del 2009 e ben 30 mila in meno del 2008. Una china discendente dal 1973 in poi, quando si contarono ben 420 mila matrimoni con una popolazione di sei milioni inferiore a quella di oggi. Va poi precisato che, nella quota attuale, vengono calcolate anche le seconde e successive nozze.

Queste cifre suggeriscono alcune riflessioni. Innanzitutto il matrimonio non è più considerato un asset sociale fondamentale. Ovvero, un passaggio obbligato verso l’età adulta, con una sua intrinseca dignità di status. Di ben altra considerazione godono, nell’immaginario pubblico, le convivenze. Esse rispondono a una domanda di leggerezza tipica dei nostri tempi. Zygmunt Baumann, a questo riguardo, ha speso parole gelidamente profetiche per spiegarci come il matrimonio non possa più trovare spazio nella «società liquida», nella quale viene considerato alla stregua di una macchina da rottamare, non appena comincia qualche cigolio di troppo.

In secondo luogo, l’eclissi prematura del matrimonio rimarca, se pure ce ne fosse bisogno, l’estensione del fenomeno dell’irresponsabilità individuale e sociale che ci fa tutti meno attenti nei confronti di chi ci sta accanto, perché siamo ripiegati su noi stessi, sui nostri bisogni e traguardi individuali, rispetto ai quali il vincolo del matrimonio appare come una gabbia insopportabile.

Dinanzi a tutto questo, cosa dovrebbe fare un Paese che pensa davvero al futuro? Sicuramente dovrebbe tornare a investire, culturalmente, sull’istituzione matrimonio, quale indicatore di stabilità e di responsabilità individuale e sociale. Avere cioè il coraggio di tornare a parlarne in positivo, senza inutili ipocrisie, ma anche senza pavide timidezze, nei luoghi in cui oggi si costruisce la cultura popolare: in televisione soprattutto, ma anche nei new media. Come a scuola e in famiglia. Certo, ci vuole coraggio per tornare ad affermare che il matrimonio è un bene per il Paese, oltre che per i singoli. Ma bisogna pure che qualcuno cominci a rompere il cerchio asfissiante del politicamente corretto e della cultura falso-progressista che sa coniugare il futuro solo con la provvisorietà e l’individualismo. Stabilità e responsabilità sono bellissime. E a pensarci bene, sono nel Dna di questo nostro Paese. Ma c’è bisogno che qualcuno lo ricordi e lo insegni.