Opinioni & Commenti

Sì alle marce della pace. No alle appropriazioni indebite

di Franco VaccariAd Arezzo, nel maggio 1996, Lev Immanuelovic Razgon, scrittore russo morto nell’anno giubilare a novantadue anni, sotto il maestoso crocifisso del ‘200, nella Basilica di San Francesco, così si rivolse ai presenti: «Non sapevo se partecipare a questa marcia della pace. In vita mia ho sempre associato la parola marsh a qualcosa di terribile: prima le marce della gioventù comunista sovietica – propagandate come marce per la pace – poi le marce nei diciassette anni di gulag. Ma quando vi ho visto, ho capito! E per la prima volta partecipo volentieri a una marcia». Era una delle tante marce per la pace degli anni novanta: davanti al vecchio scrittore una chiesa gremita di giovani, di gente disarmata, che s’impegnava per la nonviolenza, il dialogo, la responsabilità, lo aveva immediatamente convinto che si trattava di un’altra cosa. Lui – che non ebbe mai una parola di odio verso i suoi aguzzini – capì che lì il clima era quello della mitezza: forza che non diventa mai violenza.

Come Razgon, per ben altri motivi, gente delle nostre parti, si chiede, magari dopo la marcia Perugia-Assisi: «Servono queste marce?». E aggiunge: «E le veglie di preghiera?». «Dov’è il profumo ghandiano?». Il fenomeno è in evoluzione e i duecentomila di domenica scorsa lo evidenziano. Dalla pace si passa alla giustizia e da questa si può progredire nella infinita costellazione di parole che indicano quei valori che più si ripetono più si dissolvono.

Lo evidenziano i presenti e gli assenti e la scarsa preoccupazione di essere veramente tanti, se non tutti. Lo confermano le interviste, i simboli, le bandiere: le appartenenze politiche rimbalzano in primo piano, incontenibili, fuori luogo e riconfermano che marciare per la pace, in Italia, è spesso l’opposto del nobile appello del presidente Ciampi: «La pace è un bene indivisibile». Perché lo sanno tutti quali sono i comportamenti che uniscono e quelli che dividono. Eppure, nonostante questo, in attesa di forme nuove che non tarderanno a imporsi, rigenerando quelle vecchie, ci ostiniamo a dire che non è vero che non servono. Oltre il credo spirituale nella comunione dei santi, la solidarietà visibilmente espressa è un chiaro valore laico e il movimento per la pace più grande mai visto al mondo – quello alla vigilia dell’attacco in Iraq – crescendo di giorno in giorno, da Piazza della Signoria alla Nuova Zelanda contribuì – paradossalmente – ad anticipare l’attacco militare, perché proprio quel movimento stava minando il consenso di molti governi…

Da Bombay a Timishoara a Berlino molti tiranni sono stati cacciati da fiumane di pace colorate, anche se così non è andata a Tienammen o a Santiago. Ma il popolo della pace – pur legittimamente diviso in tante posizioni diverse nell’individuazione dei mezzi per fermare il prepotente o disarmare il criminale – nei momenti corali di popolo deve abbandonare la tentazione fondamentalista di fissare i confini entro cui possono stare i «pacifisti doc». Il pluralismo è un bene non praticabile a senso unico: è circolare. Se con la voce lo affermi, ti tocca le spalle un attimo dopo e ti chiede conto del tuo dire.