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Siria, quattro anni di guerra per un Paese ridotto allo stremo

La Russia è ormai scesa in campo apertamente a favore di Assad e il risultato della sua azione basata su massicci bombardamenti aerei sembra quello di mantenere al potere l’attuale presidente della Siria pur di sconfiggere il nemico principale identificato nell’Isis. Da parte americana si continua a sostenere i ribelli di stampo laico e democratico anche con l’offerta di armi e di addestramento, ma si fa finta di ignorare che questo tipo di opposizione può contare su forze sempre più ridotte e difficilmente riuscirà a sconfiggere Assad mentre sarà capace di perpetuare il conflitto nel tempo. In ogni caso, anche ammesso e non concesso che alla fine l’opposizione moderata riesca ad avere la meglio sull’attuale regime siriano, non si vede come possa poi affrontare e vincere lo scontro con le forze dell’Isis.

La soluzione immaginata da Obama per cui si dovrebbe licenziare subito Assad e mantenere intatto l’attuale esercito siriano per combattere l’Isis è contraddetta dalla esperienza dell’Iraq dove la eliminazione di Saddam Hussein produsse anche la liquidazione del suo esercito. L’ipotesi della ripetizione in Siria dell’attuale caos della Libia appare in questa prospettiva la più probabile con una guerra in cui cambierebbero in parte gli attori ma non finirebbero le ostilità e le atrocità in un paese da cui la fuga in massa basta già a dimostrare che è allo stremo.

In realtà guardando a fondo nell’impasse di una situazione sempre più drammatica è impossibile non concludere che la vicenda siriana costringe sempre più a scegliere, almeno temporaneamente, non solo fra guerra e pace e fra dittatura e democrazia, ma anche fra pace e democrazia. Questa scelta che nessuno avrebbe il coraggio di dichiarare apertamente per il grande valore che ambedue i termini portano con sé è tuttavia stata fatta spesso nella storia senza teorizzarla e nemmeno senza dirla quando di fatto ci siamo accorti che per quanto orribili anche le prigioni sono peggiori dei massacri. Questa scelta è stata fatta in passato tollerando  le decine di dittature esistenti nei vari angoli della terra e soprattutto evitando per quasi mezzo secolo di ridurre in cenere il pianeta per andare a portare la democrazia a Budapest o a Varsavia. Al contrario le guerre più recenti inaugurate per andare a portare la democrazia in Afganistan, in Iraq o negli stessi paesi arabi hanno di fatto portato guerre di cui le più antiche stanno ormai per superare il quarto di secolo senza dar segno di essere stanche e senza riuscire a partorire ancora democrazie degne di questo nome.

Il pacifismo più radicale ha invece sempre seguito il principio che la pace è un bene così supremo che si può tentare di negoziarlo con tutti. E non si tratta solo di buonismo. È ormai praticamente accertato in sede storica che gli americani avrebbero potuto risparmiarsi Hiroshima se avessero accettato prima di non chiedere la deposizione dell’imperatore del Giappone. Ora nel caso della Siria è evidente che da un lato l’intervento russo salva per il momento Assad, ma da un altro lo indebolisce perché di fatto ne fa un vassallo di Mosca.

È quindi possibile iniziare una trattativa anche con Assad per indurlo poi al suo allontanamento dal potere visto che ormai la sua sorte non dipende più da lui, ma semmai da chi ne ha di fatto preso in mano il futuro. E non a caso domenica scorsa in una intervista alla televisione iraniana Khabar Assad ha accennato per la prima volta alla possibilità di lasciare. Ma proprio per le due guerre che si combattono in Siria e di cui la sostituzione di Assad ne potrebbe fare cessare solo una è tuttavia indispensabile fare in Siria ciò che non è stato fatto né in Afganistan, né in Iraq, né in Libia, cioè salvare uno stato pur privandolo del suo dittatore. In questo senso una negoziazione a tutto campo e con il massimo di partecipazione è importante perché nello stato post Assad che deve combattere il califfato si riconosca il maggior numero di siriani possibile e l’opposizione democratica non finisca per trovarsi assediata fra i fanatici dell’Isis e chi semplicemente desidera una pace che nemmeno la sconfitta di Assad può oggi garantire.