Opinioni & Commenti

Su gay e gender un dibattito che attraversa il mondo cattolico

Quelli a cui stiamo assistendo in questi giorni sono davvero eventi di portata epocale. Migliaia di persone stanno sbarcando nel nostro paese, dopo mesi di viaggio in condizioni disperate. Se l’accoglienza è un gesto imprescindibile di civiltà, la loro permanenza è destinata a cambiare la vita, gli equilibri, la cultura stessa del nostro paese e dell’Europa alla quale apparteniamo. Dovremmo dunque preoccuparci, per quanto compete a ciascuno di noi, di affrontare al meglio quest’emergenza, nell’ottica di un’integrazione in grado di offrire opportunità per tutti. Invece si susseguono le solite polemiche, espressione di una paura che paralizza ma non risolve i problemi, e di un buonismo spesso altrettanto velleitario. Anzi: in alto nell’agenda imposta al dibattito pubblico dalla politica e dalle agenzie di comunicazione vengono presentati con insistenza altri temi, certo significativi ma probabilmente usati come strumenti di «distrazione di massa».

Si parla, ad esempio, della formalizzazione dei legami fra persone dello stesso sesso, e della possibilità che queste coppie possano adottare o procreare, direttamente o per interposta persona. Si sostiene soprattutto l’idea che le preferenze sessuali siano determinate soprattutto da fattori culturali, e che non si debba dunque parlare più di differenza sessuale, ma di differenza di genere. Tutto ciò, ovviamente, suscita ulteriori polemiche. Un altro elemento di confusione è dato poi da un uso volutamente scorretto del linguaggio. Si scivola dal concetto di coppia omosessuale alla nozione di famiglia, identificandoli. Si rivendica subito come un diritto l’esercizio di comportamenti resi possibili solo dall’uso delle nuove tecnologie riproduttive, senza entrare nel merito della loro liceità.

Anche il mondo cattolico, per la verità, è attraversato da una contrapposizione fra coloro che rifiutano decisamente tali esiti e coloro che li considerano qualcosa di culturalmente inevitabile, e ritengono che ci si debba adattare. Sembrano ripetersi le vicende del referendum sul divorzio o del dibattito sulla Humanae vitae. E così si fronteggiano di nuovo fautori dei valori tradizionali e sostenitori di posizioni più comprensive nei confronti del disagio di chi si trova in una condizione di diversità rispetto a modelli sanciti dalla tradizione.

Ma forse qui c’è un errore. Non è possibile considerare opposte fra loro la fedeltà alla dottrina della Chiesa e la misericordia che dobbiamo a ciascun essere umano. Perché mai vanno contrapposte verità e carità. C’è invece una questione di fondo, sulla quale dobbiamo confrontarci anche con chi non la pensa come noi. Essa concerne il modo in cui dobbiamo pensare le nostre relazioni, la nostra stessa vita, nell’epoca delle nuove tecnologie. Dobbiamo domandarci se ciò che esse offrono è sempre e immediatamente un bene. È un bene accettare la trasformazione della vita in qualcosa di artificiale, d’infinitamente manipolabile, rinunciando alla nostra natura e alle sue differenze? O non dobbiamo invece porre noi stessi alcuni limiti etici, anche quando i progressi tecnologici sembrano oltrepassarli, per rendere possibile ciò che prima o poi si rivelerà interesse di tutti? Di questo dobbiamo parlare: senza favorire contrapposizioni ideologiche, senza prendere decisioni a colpi di maggioranza.

Compito del cristiano è infatti di salvaguardare la vita di tutti, di rispettarla, di farla fiorire nella verità e nella bontà. Ma, di nuovo, di chi è la vita che risulta oggi più urgentemente minacciata? È quella, come dicevo all’inizio, del popolo dei barconi. Lo ha ricordato anche il Papa in molti suoi recenti discorsi. Non dimentichiamocelo, dunque: per evitare «distrazioni di massa»; per vedere le cose nella corretta prospettiva; per mettere il nostro impegno al servizio di una giustizia davvero concreta.