Opinioni & Commenti

Successo e sconfitta del divorzio breve

A giudicare dai dati recentemente apparsi sulla stampa, le nuove norme sul divorzio sembrano aver riscosso «successo» tra le coppie in crisi (e tra i professionisti del settore). In soli due mesi sarebbero ben 50mila le nuove pratiche di divorzio; di queste, circa il 20% sarebbe costituita da coppie di ultrasessantenni, molte delle quali pronte ad intraprendere una nuova unione.

Partendo proprio da quest’ultimo dato, più che di successo delle nuove norme sul divorzio breve sarebbe opportuno parlare di vera e propria sconfitta di un’intera generazione, la stessa che sotto l’impeto dei sussulti sessantottini ha inteso togliere il freno a tutto, sotto lo slogan di quel «vietato vietare» e della negazione del senso del limite che ancor oggi sembrano regnare incontrastati nella cultura occidentale. Una sconfitta grave, non priva di conseguenze sulle generazioni successive.

Tralasciando i criticabili toni enfatici con cui tali stime sono state riprese dai quotidiani, non senza quel tocco di superficialità con cui sovente si è soliti trattare i temi della famiglia, c’è ben poco di cui rallegrarsi. La semplice riduzione dei tempi per ottenere un divorzio quale giustificazione del boom di richieste, lascia sbalorditi per la superficialità dell’analisi sociale, ma deve indurci a riflettere sul tempo che stiamo vivendo e sul valore della posta in gioco.

Il fenomeno è trasversale e interessa, purtroppo, sia i credenti sia i non credenti. L’istituto del matrimonio, sempre più ridotto a sinonimo di convivenza stabile socialmente accettata, sembra aver smarrito il suo senso profondo, da cui discende la sua indissolubilità e unità e, per i credenti, la sua stessa natura sacramentale. Alla radice di questa crisi di senso, come ci ha ricordato Giovanni Paolo II, «sta spesso una corruzione dell’idea e dell’esperienza della libertà, concepita non come capacità di realizzare la verità del progetto di Dio sul matrimonio e la famiglia, ma come autonoma forza di affermazione, non di rado contro gli altri, per il proprio egoistico benessere» (Familiaris Consortio, n, 6).

Nella sua catechesi sulla famiglia, in analogia con i suoi predecessori, anche Papa Francesco si è soffermato sulle conseguenze dello «svuotamento dell’amore coniugale» evidenziando che «quando un uomo e una donna che si sono impegnati ad essere una sola carne e a formare una famiglia pensano ossessivamente alle proprie esigenze di libertà e di gratificazione, questa distorsione intacca profondamente il cuore e la vita dei figli» con gravi conseguenze sulle relazioni, poiché «l’infezione contagia tutti» (udienza generale del 24 giugno 2015).

Le norme sul divorzio breve rappresentano, dunque, una delle tante leggi destinate purtroppo a svilire la dignità dell’amore umano e a svuotare il senso dell’istituto matrimoniale, avallando ed alimentando un equivoco concetto di famiglia che tende a ridurla ad una sfera sempre più privata e individuale, negandone sia il ruolo sociale che il suo senso «missionario», con conseguenze gravi sul piano dei legami sociali e della società nel suo insieme.

I cristiani – ci ha recentemente ricordato il Pontefice – «non si sposano solo per se stessi: si sposano nel Signore in favore di tutta la comunità, dell’intera società» (udienza generale del 29 aprile 2015). Il matrimonio cristiano è, nello stesso tempo, un atto di fede e di amore che «testimonia il coraggio di credere alla bellezza dell’atto creatore di Dio e di vivere quell’amore che spinge ad andare sempre oltre, oltre se stessi, e anche oltre la stessa famiglia» (udienza generale del 6 maggio 2015). Come ci insegna San Paolo, l’amore coniugale è infatti l’immagine dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Gli sposi sono chiamati da Dio a raggiungere l’amore divino attraverso l’amore umano, cooperando con il creatore nella procreazione e nell’educazione dei figli e facendo della propria vita di famiglia una testimonianza concreta di tutte le virtù cristiane. Un compito stupendo che grava su ciascun coniuge e che sta a ciascuno riscoprire a valorizzare nel proprio quotidiano, alimentando e tenendo vivo il senso della vocazione matrimoniale.

L’indebolimento del matrimonio finisce, dunque, per indebolire la Chiesa e, con essa, la società nel suo insieme. Nel matrimonio e nella famiglia, infatti, «si costituisce un complesso di relazioni interpersonali – nuzialità, paternità-maternità, filiazione, fraternità – mediante le quali ogni persona umana è introdotto nella famiglia umana e nella famiglia di Dio, che è la Chiesa» (Familiaris Consortio, n. 15). Per questo, come ci ricorda il Pontefice, essa è «pienamente coinvolta nella storia di ogni matrimonio cristiano: si edifica nelle sue riuscite e patisce nei suoi fallimenti» (udienza generale del 29 aprile 2015).

Contro tale rischio, senza mai giudicare e lasciandosi piuttosto guidare dalla misericordia e dalla carità, a ciascun credente spetta il compito di aiutare le coppie di sposi ad acquisire e, in alcuni casi, a riscoprire il senso autentico della propria vocazione matrimoniale contro le derive di una cultura individualistica e di una concezione egoistica dell’amore umano incapace di cogliere il senso relazionale dell’esistenza. La difesa del matrimonio – inteso come vocazione e occasione di santificazione di se stessi e degli altri per mezzo di esso (Lumen Gentium, n. 34) – così come pure la riaffermazione della sua diversità rispetto a qualsiasi altra forma di unione stabile tra due soggetti, la difesa della centralità della famiglia e della sua soggettività sociale, si traducono quindi nella promozione di quel modello di sviluppo umano integrale che rappresenta l’unica risposta realmente umana agli squilibri del nostro tempo.