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Uso ed abuso del bene acqua

di Mauro Cozzolidocente di teologia morale alla Pontificia Università LateranenseIn società non-consumiste o pre-consumiste s’è fatto un uso sobrio e oculato dell’acqua. Un bene vitale, come l’aria, di cui beneficiare tutti e in modo gratuito. Gratuito per il valore primario e indispensabile alla vita, per la relativa abbondanza con cui la provvidenza divina la dispensa, e per l’uso generalmente diretto, senza bisogno – come altri beni economici – di trasformazioni e mediazioni, all’infuori delle necessarie canalizzazioni.

Nelle nostre società a sviluppo avanzato, l’acqua sta diventando progressivamente un bene di consumo largo ed eccessivo. Una risorsa ritenuta inesauribile e sempre più comodamente attingibile, a costo zero o irrilevante, così da disporre di essa agevolmente e a piacere. Aumentano in modo esponenziale i consumi, ma non la responsabilità per un attingimento avveduto, regolato e previdente. Anzi non è fuori luogo parlare oggi di un uso smodato e dissipatorio, che equivale ad un abuso.

Ci misuriamo in questi giorni con una crisi idrica generalizzata, accresciuta e acuita dai gravi problemi di siccità di una stagione carente di piogge e da un trend climatico di progressiva elevazione delle temperature e di alterazione del ciclo delle stagioni e delle precipitazioni piovose, nel contesto più generale del turbamento in atto degli equilibri ecosistemici. Tutto questo solleva problemi di coscienza etica nel modo di far uso dell’acqua e di gestirne le risorse. Indubbiamente il problema è sociale e politico e perciò strutturale, organizzativo, gestionale, legale.

Ma non basta a risolverlo senza un’etica che ponga il problema in termini di responsabilità e di solidarietà. Di responsabilità anzitutto, perché l’acqua non è un bene meramente fisico ed eticamente indifferente, posto sotto l’esclusivo criterio del godimento e del vantaggio. È anche un bene morale che interpella e vincola le coscienze, avanzando esigenze di rispetto, di sobrietà e di giustizia. Questo vuol dire che ogni negligenza e spreco, ogni abuso e inquinamento è una colpa morale, è un’ingiustizia, è un peccato, di cui si è responsabili. Responsabili davanti a Dio, della cui provvidenza l’acqua è dono; davanti a se stessi, nella cui coscienza il bene risuona; e davanti agli altri, cui il bene è sottratto.

In termini di solidarietà inoltre perché l’acqua non è proprietà individuale e privata, o unicamente tale. Essa è posta sotto il principio primo della destinazione universale dei beni primari e vitali. L’acqua è di Dio, e da lui fatta piovere e scorrere senza confini e frontiere. Certamente occorre accoglierla e prenderne possesso, ma per una gestione e un uso non arbitrario e profittatore ma solidale e condiviso nella raccolta, nella distribuzione e nell’utilizzo.

Questo recupero, questa prova di eticità – di responsabilità morale nella considerazione e nell’uso delle acque – interpella ovviamente le coscienze personali. Nessuno può dire: il problema non mi riguarda; e sottrarsi alle responsabilità dei propri sprechi e abusi.La rilevanza etica del problema è anche d’ordine sociale e politico. L’acqua è un bene comune. Interpella pertanto in modo speciale coloro che ne sono responsabili come amministratori o come politici. Questi sono chiamati a una progettazione, spartizione e gestione delle risorse idriche secondo criteri di giustizia distributiva, ma anche contributiva, che evita dispersioni, contaminazioni e sprechi e consenta a tutti – persone, comunità e imprese – di beneficiarne in modo consono alle reali necessità. Il che va considerato e attuato su base trans-regionale e trans-nazionale, perché l’abbondanza degli uni sovvenga alla penuria degli altri, in una economia di comunione che fa dell’acqua una risorsa non solo fisica di vita, ma anche morale e spirituale di fraternità, di condivisione e di pace. In questa emergenza-acqua assume inedita attualità, per forza di persuasione e ampiezza attuativa, la promessa di Gesù nel Vangelo: «Ho avuto sete e mi avete dato da bere».

Siccità, agricoltura in crisi