Opinioni & Commenti

Volontariato, attenti a non fare confusione

di Antonio CecconiLa conferenza nazionale del volontariato che si tiene ad Arezzo è occasione preziosa di riflessione e di verifica. L’Italia che già fu un paese di poeti, di navigatori e di santi è adesso un popolo di milioni di volontari, stando ad alcune indagini un po’ troppo disinvolte. Certe cifre si ottengono sommando tra loro di tutto un po’, incluse azioni occasionali e sporadiche: raccolte fondi contro le malattie, organizzazione di spettacoli benefici, sostegno a campagne ambientaliste… Una verifica un po’ più attenta, che dà la qualifica di volontario a chi impegna in attività libere, gratuite e destinate a terzi alcune ore del proprio tempo con cadenza almeno settimanale, fornisce una cifra vicina a mezzo milione di persone. Che non sono poche!

L’equivoco sui numeri è alimentato dalla confusione concettuale tra il volontariato e la più grande famiglia del “terzo settore”, che include cooperative e imprese sociali, associazionismo di vario genere (non necessariamente rivolto a terzi), fondazioni ed enti di diversa natura e ultimamente il nuovo servizio civile non più legato agli obblighi di leva.

Il punto di distinzione – e perché no? – di forza del volontariato rispetto alle altre componenti sta nella sua libera e gratuita iniziativa, nella possibilità di scegliere in quale campo agire, di quali bisogni e povertà occuparsi, a quali ideali e valori attingere. Anche nell’indipendenza da contributi pubblici, e però ultimamente la possibilità di accedere a finanziamenti non sempre aiuta il volontariato.Non si tratta di fare una classifica di merito o di “purezza”: è normale e giusto che un’impresa sociale agisca tenendo conto di vincoli di bilancio, costi del lavoro, doveri derivanti dal rapporto con le istituzioni pubbliche. Ed è altrettanto logico che la continuità dei servizi alla persona non possa dipendere dalla scelta dei cittadini di impegnarsi o no nel volontariato. Però il volontariato ha senso se, mentre altri si occupano dell’organizzazione dei servizi, salva la sua anima di gratuità, soprattutto in un tempo in cui crescono la smania del profitto e della competitività, il mito della salute e della bellezza (come immagine esteriore e anche ostentazione che offende), la diffidenza e la chiusura verso l’altro, soprattutto il diverso e lo straniero. Viviamo dentro uno sviluppo economico che non riesce a ridurre la povertà e che per vari aspetti accresce l’emarginazione e il disagio.E sono anche tempi in cui, con una spesa pubblica che deve fare i conti con la scarsità di risorse, l’elogio del volontariato da parte dei politici è quanto meno sospetto, se lo si pensa come espediente per ridurre i servizi alla persona e presidio per contenere il disagio sociale. Anche l’ipotesi dell’attuale Governo di una legge quadro sull’impresa sociale che includa anche il volontariato (alla conferenza di Arezzo se ne dovrebbe sapere qualcosa di più) non sembra contribuire a diminuire gli equivoci.

Proprio la Toscana, terra di volontariati antichi e nuovi e di progettazione di un welfare territoriale che non contrapponga ma integri le responsabilità delle istituzioni e la partecipazione solidale dei cittadini, può diventare interessante laboratorio di un volontariato che lascia ad altri la gestione dei servizi più “pesanti” e si fa carico di creare inclusione sociale, tutela dei soggetti deboli, pratica di condivisione e di accoglienza.

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