Toscana

Allegretti: «Le armi non sono la soluzione giusta»

DI ELISABETTA CASELLISe fin dall’inizio si fosse imboccata la strada del diritto internazionale portando la questione in seno all’Onu, si potevano individuare soluzioni e metodi alternativi alla risposta militare americana contro l’Afghanistan. L’uso delle armi da parte degli Usa è da qualificare rigorosamente unilaterale perché l’articolo 5 del Patto atlantico, a cui hanno fatto riferimento, è scritto per gli attacchi ordinari di Stato contro Stato. In questo caso si tratta di un’azione interna-esterna che ha le sue radici sullo stesso suolo americano. Il trattato non include il terrorismo fra gli attacchi armati, è solo nel ’99 che alcuni governi ne danno una interpretazione in questo senso».

È quanto sostiene il professor Umberto Allegretti, docente di Diritto pubblico generale alla Facoltà di giurisprudenza di Firenze, impegnato da anni nel Movimento cattolico internazionale per la pace, che come credente ribadisce con forza che «l’unico modo per testimoniare il messaggio che ci viene dal Vangelo è una condanna rigida di ogni guerra. Il Papa ha fatto sentire forte questo annuncio e anche alcuni settori del movimento di opposizione alla guerra che si è rivelato attraverso i 250 mila della marcia da Assisi a Perugia e i 130 mila a Roma. Bisogna cambiare cultura e in questo i cristiani, chiamati ad operare sul piano della riflessione, dell’interiorità, dell’appello etico, potrebbero avere un grande ruolo se osassero la coerenza». Con Allegretti cerchiamo di inquadrare l’attuale crisi sotto il profilo del diritto internazionale.

Secondo il Consiglio europeo, la risposta militare americana troverebbe il suo fondamento nella risoluzione 1328 adottata dal Consiglio di sicurezza Onu il 12 settembre, ma nel testo non c’è un’esplicita autorizzazione all’uso delle armi per combattere il terrorismo. Allora, professore, come si è arrivati all’attacco armato?

«Questo comportamento è simile a quello seguito nel Kosovo: si è presa una delibera generica che non autorizzava l’uso della forza, per servirsene come principio di difesa senza dire però che ciò comportava un uso massiccio della forza. In realtà l’unica precisa disposizione espressa ulteriormente in una delibera del 27 settembre, è quella delle sanzioni contro i terroristi di tipo civile e soprattutto finanziarie atte ad interrompere le possibilità di azione del terrorismo. Quella è la vera misura che l’Onu ha stabilito per il futuro e ciò significa che la lotta che gli Stati Uniti vogliono fare in tutto il mondo per debellare il terrorismo deve avvenire attraverso l’interruzione dei finanziamenti e la vigilanza della polizia».

Questi due mezzi sono stati previsti con chiarezza dall’Onu.

«Sì, ma ne esiste anche un terzo: la costituzione di un Tribunale internazionale per i reati penali più gravi, deliberato dal Trattato di Roma del 1998, ma non ancora operante perché non ratificato da un numero sufficiente di Stati, nè sottoscritto dagli Usa perché li vincolerebbe in maniera rigorosa. L’aspetto giuridico più condannabile alla stregua del diritto penso sia la sproporzione dell’attacco, è evidente che l’atto terroristico contro le torri e il Pentagono sia stato gravissimo, ma abbiamo ora, secondo stime Onu, 7 milioni e mezzo di profughi. Inoltre l’uso delle armi appare finora inefficiente perché non ha raggiunto i suoi fini ed è difficile pensare di stanare il terrorismo attraverso questo tipo di campagne. Secondo il mio parere i due aspetti dell’operazione militare, sproporzione e inefficienza, fanno sorgere l’interrogativo che ci siano dei fini che vanno al di là di quelli contingenti».

E quali sarebbero?

«Il primo è quello di riempire il vuoto dell’Asia centrale che si è creato con il tramonto dell’impero sovietico con due obiettivi: il controllo delle frontiere nevralgiche tra Russia, Cina, India e le immense riserve petrolifere di quelle regioni che sarebbero, secondo le ultime ricerche, più consistenti di quelle del Golfo. Già cinque anni fa, Zbigniew Brzezinski, consulente di Carter, aveva scritto un libro sull’importanza dell’egemonia americana nell’Eurasia, e nel rapporto quadriennale del Dipartimento della difesa pubblicato prima dell’11 settembre, si dice che l’America non ha sufficienti basi nell’Oceano indiano. Il secondo obiettivo è un dominio militare più globale che può confermare la incerta supremazia economica dovuta al grande sviluppo dell’Europa e del Giappone».

L’articolo 5 del Patto Atlantico a cui lei ha fatto riferimento giustifica anche l’intervento armato degli alleati in soccorso degli Usa?

«Lo prevede, anche se in modo non automatico. L’Europa, comunque, non dovrebbe essere così subalterna: dovrebbe mettesse un alt prima ancora che su un piano politico su quello critico-culturale, svelando il disegno degli Stati Uniti e denunciandolo come eccedente alla lotta al terrorismo e all’episodio dell’Afghanistan».