Toscana

Camaldolesi, on line dieci secoli di storia

di Elisabetta Giudrinetti

Le foreste italiane non sono un museo ma una risorsa ambientale, economica e sociale – così Raoul Romano dell’Osservatorio Foreste Inea e coordinatore del progetto Codice forestale camaldolese, a cui è stato dedicato un convegno lo scorso 28 e 29 maggio al monastero di Camaldoli –. Questo è il messaggio che ci hanno lasciato i monaci camaldolesi nei loro documenti e in ottocento anni di gestione. Se oggi le foreste del Casentino sono una patrimonio inestimabile dal punto di vista ambientale, lo dobbiamo alla lungimirante visione dei camaldolesi che hanno saputo coltivare e utilizzare il bosco senza distruggerlo, trasformandolo in una fonte di sviluppo economico e sociale per la popolazione locale del tempo e per le generazioni che lo hanno abitato, e che vi vivono ancora oggi».

La foresta di Camaldoli, una delle aree naturali più pregiate d’Europa, a buon diritto può considerarsi un ecosistema nato da una «violenza ambientale», operata dai monaci camaldolesi fin dall’XI secolo. Gestendo e coltivando la foresta hanno progressivamente sostituito l’abete bianco al faggio, con un’azione sostenibile ed equilibrata, creando una florida economia locale e, non ultimo, lasciandoci in eredità un paesaggio pregiato ed unico, oggi tutelato con un parco nazionale.

E se inizialmente, come sottolinea ancora Romano, «l’abete bianco sostituì il faggio per necessità spirituali perché queste conifere sono il simbolo dell’eremitaggio, successivamente la scelta si rivelò fondamentale anche dal punto economico. Lo sviluppo delle città, e in particolare delle Repubbliche marinare, richiedeva grandi rifornimenti di legname. Il legname delle foreste casentinesi, lungo l’Arno, raggiunse così Firenze, il porto di Livorno e di Pisa fino ad essere utilizzato perfino nei cantieri della marina britannica. Si trattava di legname di alta qualità che rispondeva alle più esigenti richieste tecniche dell’epoca e che divenne – grazie ad una gestione della foresta da parte dei monaci operata in stretta sintonia con le esigenze e le necessità della popolazione locale – la principale ricchezza per l’intero territorio».

Il convegno, organizzato dall’Osservatorio Foreste dell’Inea (Istituto Nazionale Economia Agraria), ha riunito per due giorni nel millenario cuore della comunità camaldolese (le celebrazioni per i mille anni della fondazione del monastero voluto da san Romualdo sono previste per il 2012, nda) ricercatori e tecnici forestali impegnati nella gestione attiva e sostenibile delle risorse ambientali ed interessati a capire come sia stato possibile – e se è replicare a questo esempio virtuoso! – coltivare la foresta in modo sostenibile.

L’occasione dell’incontro è stata la presentazione del lavoro di digitalizzazione di oltre quarantamila pagine di documenti conservati nei monasteri, nell’Archivio Storico di Firenze ed in numerose biblioteche in cui i  monaci camaldolesi raccontano il loro rapporto con la foresta e le tecniche utilizzate al fine di coniugare tutela ambientale con lo sviluppo socio-economico della zona. L’intero archivio è visitabile all’indirizzo www.codiceforestale.it.Per Alberto Manelli, direttore generale Inea, l’incontro ha avuto sì un grande valore scientifico ma anche culturale, «perché questo progetto – nato nel 2003, con la stipula di un protocollo tra il “Colegium Scriptorium Fontis Avellanae” e l’Eim in cui presero avvio le prime attività di ricerca concluse con la realizzazione di un primo censimento dei fondi camaldolesi conservati negli archivi di Stato e con una ricerca tematica su fonti e fondi dell’archivio di Camaldoli inerenti la gestione selvicolturale camaldolese e proseguito fino al 2009 con la ricostruzione del Codice forestale camaldolese – ci aiuta a capire che le foreste non sono luoghi chiusi, da conservare. Sono invece realtà vive in cui l’uomo deve essere presente per lavorare, produrre energia, divertirsi. Dobbiamo ribaltare l’idea secondo cui le foreste dei Paesi ricchi sono da conservare intatte mentre quelle dei Paesi in via di sviluppo sono invece fonti da sfruttare in modo indiscriminato».

Dom Salvatore Frigerio, camaldolese, presidente e fondatore del “Collegium Scriptorium Fontis Avellanae”, è entusiasta del risultato perché «siamo riusciti a mettere a disposizione della comunità scientifica quella che fino a qualche anno fa era soltanto una galassia di documenti sparsi che ci stanno rivelando cose straordinarie. È incredibile con quanto anticipo i monaci avessero intuito aspetti fondamentali per la gestione del territorio, come il controllo idro-geologico della pianura e si preoccupassero di fare progetti in questo senso. Una visione molto moderna se pensiamo al dissesto idro-geologico dell’Appennino e del Paese».

Alla due giorni camaldolese hanno partecipato inoltre Quinto Fontana, comandante regionale per la Toscana del Corpo Forestale dello Stato, Luca Rossi per il Parco Nazionale Foreste Casentinesi e Simone Borchi per la Comunità Montana Casentino.

Il Codice forestale camaldolese

Esprime la sintonia profonda tra la ricerca spirituale e la cura della foresta. Costituito da una complessa serie di norme e disposizioni con le quali per secoli, i monaci camaldolesi hanno gestito e tutelato le loro foreste. Oggi si trova contenuto in libri e documenti specifici, ma soprattutto frammentato in una miriade di carte e di scritture minori (contratti, verbali, promemoria e corrispondenza di vario genere) sparse in archivi, biblioteche e collezioni private.

Grazie a questo progetto è già stato organizzato e messo a sistema in un’apposita banca dati online gran parte del materiale storico, prodotto in 857 anni e inerente la gestione forestale delle proprietà camaldolesi. Sul sito www.codiceforestale.it è possibile visionare una prima reale ricostruzione del Codice forestale camaldolese, ma anche approfondire lo studio diretto di questi documenti.

Attraverso i quali esperti in scienze storiche, forestali e agrarie, economiche, sociali, giuridiche potranno fornire spunti e contributi al dibattito sullo sviluppo culturale e socio economico delle popolazioni montane, secondo i principi della sostenibilità ambientale, dell’equilibrato utilizzo delle risorse naturali territoriali e della salvaguardia delle culture locali.

Un nuovo equilibrio ecologico

Il rapporto che i Camaldolesi hanno avuto con le foreste casentinesi rimane unico nella storia dell’Appennino. Approfittando dei processi naturali per realizzare la rinnovazione, e con una meticolosa attività di sostituzione del faggio con nuovi impianti di abete, i monaci camaldolesi hanno unito la simbologia spirituale ascetica ad una essenza particolarmente apprezzata sul mercato del tempo. Hanno definito un nuovo equilibrio ecologico, custodito e mantenuto nei secoli con interventi colturali, tagli, semine e piantagioni fino a delineare quel paesaggio da tutti oggi riconosciuto come un patrimonio ambientale unico. L’esempio di gestione delle foreste realizzato dalla Congregazione benedettina di Camaldoli, che ha definito il paesaggio e la biodiversità appenninica, oggi è formalmente riconosciuto nell’istituzione del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi. Il paesaggio e l’ambiente che vogliamo salvaguardare e tutelare con leggi e vincoli, è in realtà frutto di una «violenza ambientale». Soddisfacendo le proprie necessità spirituali ed economiche i Camaldolesi hanno gestito il territorio consapevoli che le stesse necessità le avrebbero avute le generazioni successive.

La peculiarità dei Camaldolesi nella gestione dei boschi, in partenza trasmessa oralmente, è data dall’inserimento ufficiale nelle regole della vita quotidiana dei monaci con le prime norme scritte a tutela dell’integrità della foresta nella legislazione di Gherardo nel 1278, fino a essere incorporate nella Regola camaldolese del 1520 promulgata da Paolo Giustiniani. Una Regola scritta, quindi, per determinare vita e l’azione quotidiana dei monaci, attenta alla voce delle popolazioni locali che con loro condividevano il territorio, ma non una Regola immutabile né immutata. L’attenzione al territorio e le cure colturali dedicate nei secoli dai Camaldolesi alle abetine Casentinesi e al benessere sociale delle comunità casentinesi, si sono evolute e adattate nel tempo contestualmente alle necessità.