Toscana

Delitti e informazione/2: Cronaca, anche la «nera» ha bisogno di regole

ANDREA FAGIOLI

Emilio Rossi è stato il primo direttore del Tg1, dal 1976 al 1980, con un intermezzo di sei mesi di degenza in ospedale perché gambizzato dalla Brigate Rosse. Prima di entrare in Rai, di cui poi sarebbe diventato anche vicedirettore generale, ha lavorato nella carta stampata. Autore di saggi come Il pensiero politico di Jacques Maritain (1956), La politica come follia. Ironia e verità di Pascal (1984), Una pendola per lo zar. La politica, il tempo, la morte (1996), Rossi è attualmente presidente del Consiglio di amministrazione del Centro televisivo vaticano e presidente nazionale dell’Ucsi, l’unione dei giornalisti cattolici, che ha da poco concluso un anno d’incontri in tutta Italia su «Ragazzi e media». L’ex direttore del Tg1 è quindi la persona giusta per una riflessione sui limiti o meno del diritto di cronaca e sul rapporto tra informazione e minori, argomenti tornati di prepotenza alla ribalta con la tragica vicenda di Cogne, in Val d’Aosta.

Allora, Rossi, a suo giudizio, giornali, tv e radio come hanno seguito e continuano a seguire il caso del piccolo Samuele?

«Non credo che Cogne faccia eccezione rispetto ad un costume ormai piuttosto consolidato, con le dimensioni quantitative e qualitative che caratterizzano casi come questo. La cronaca nera riguarda fatti di uomini raccontati ad altri uomini. Sotto questo profilo il giornalismo non può cavarsela con il silenzio o con una minimizzazione artificiale. Però, tutti coloro che hanno a cuore la dignità dell’uomo, a maggior ragione quelli che tengono presente il Vangelo, devono considerare la cronaca nera come qualsiasi altro comparto del giornalismo, ma con una serie di regole, di limitazioni, di cautele, di accorgimenti e di avvertenze in alcuni casi fondamentali. Questo riguarda sia la quantità che la qualità dell’informazione: i “colori” che si adoperano, le enfatizzazioni in cui si indulge e perfino la necessità, oltre che di rispettare la privacy e in molti casi l’onorabilità delle persone direttamente coinvolte, di rispettare il pubblico stesso. Ad esempio, quando mancano informazioni fresche, si tende a tenere alto il volume della notizia aggrappandosi a particolari marginali, infischiandosene della vera necessità informativa del pubblico che se qualcosa vuol sapere è proprio se ci sono novità».

Nel concreto della vicenda di Cogne, si è avuta l’impressione che sin dall’inizio l’informazione, più o meno esplicitamente, abbia sposato la tesi della colpevolezza della madre, di cui ha cercato di «rubare» uno sguardo o una battuta…

«Più che una forzatura vera e propria è stata una mancanza di limiti, di cautela. Nessuno si è preoccupato di evitare che questo sospetto mettesse radici».

Molti in questo caso si appellano al principio della concorrenza, molto sentito all’interno delle redazioni. Il ragionamento è semplice: «Se non ci arrivo io ad avere certe immagini o certe dichiarazioni, ci arrivano altri». Ma davvero in nome della concorrenza tutto è lecito?

«Quello della concorrenza non può essere un ragionamento incondizionato. Altrimenti qualsiasi barriera di natura morale o comunque di rispetto per la verità e per il prossimo cederebbe di fronte alla necessità di dover fare i conti con la concorrenza. La concorrenza ha un suo peso e bisogna realisticamente considerarlo, ma non fino al punto di pagare qualsiasi prezzo, soprattutto a danno di persone provate da grandi sventure e a danno dello stesso pubblico che ha tutto il diritto di non essere portato per il naso».

Qualcuno sostiene che rispetto al passato la qualità dell’informazione è crollata, che nel dare le notizie nessuno si preoccupa più del rispetto della dignità delle persone, da vive e da morte. Qual è la sua opinione in proposito?

«Il numero stesso di edizioni dei telegiornali e dei radiogiornali, il numero di pagine nella foliazione dei giornali è di per sé una tentazione verso l’espansione illimitata delle parole, delle induzioni, dei sospetti e così via. Indubbiamente ci deve essere una differenza tra televisione e stampa a livello nazionale e a livello locale. Ad esempio, il delitto passionale o casi del genere non possono non trovare spazio a livello locale, ma mi sembra molto meno giustificato che lo trovino nei telegiornali nazionali dove la presenza di cronaca nera determina una banalizzazione del male, una assuefazione che non fa bene a nessuno, sia nel considerare un evento meno grave di quanto non la sia realmente, che nel dare l’impressione che le cose ormai vanno così e andranno sempre peggio e che in fondo bisogna farci i conti con una certa indulgenza di principio. Altra cosa sarebbe riuscire a leggere la cronaca nera, che è cronaca di situazioni estreme, non dico con sguardo leggero o minimizzatore, ma come presa di coscienza del male che c’è da che mondo è mondo e della possibilità che abbiamo di distinguere il bene dal male, di adoperare quando si può la compassione o la cicatrizzazione di certe ferite».

Come direttore cosa avrebbe consigliato ad un suo inviato a Cogne?

«È un po’ antipatico dettare leggi dal di fuori. Le norme comunque sono quelle di sempre. Ad un inviato direi di non cedere alla prima pennellata di colore, di non gettare sospetti su chi non sia ufficialmente sospettato, soprattutto di non rimestare nei particolari minuti sia di natura scabrosa che di natura orrorifica: il numero di colpi, il sangue com’era sparso, tutti dettagli che sono comuni alla fiction televisiva e che vengono riferiti dimenticando che sono messaggi che entrano non richiesti nelle nostre case, che raggiungono vecchi e bambini, persone “scafate” e persone nevroticamente labili. Questa insistenza non necessitata sul particolare non produce nulla se non una spinta a indulgere in quel rapporto, diciamo così, un po’ scabroso, un po’ ambiguo, che ciascuno di noi ha con le cose che fanno spavento, che fanno orrore, che fanno correre i brividi lungo la schiena. Questa pratica, soprattutto in televisione, andrebbe governata con molta saggezza».

L’Ucsi, l’associazione che lei presiede, ha dedicato un anno intero all’iniziativa «Ragazzi e media» realizzando un centinaio di incontri in tutta Italia, una decina anche qui in Toscana. Cos’è che è venuto fuori da questa esperienza? Qual è il rapporto vero tra minori e mezzi di comunicazione di massa?

«Da un lato sono venute fuori cose che si potevano anche prevedere e cioè che è molto facile a parole tuonare contro certi aspetti dei media, che meritano comunque di essere stigmatizzati; dall’altra però, quando si scende nell’atteggiamento concreto dei genitori, si scopre che ci sono tanti padri e madri di famiglia che non parlano di questi problemi con i figli, che non gli stanno accanto quando vedono la televisione. Insomma, c’è una latitanza tendenziale. Le famiglie accorte e gli educatori che se ne occupano non sono così diffusi come la diffusione del mugugno farebbe pensare. Si parla tanto di cittadinanza attiva, ma uno dei casi in cui la cittadinanza attiva si potrebbe concretamente esercitare sarebbe proprio quello di far sapere agli editori di giornali, alle emittenti radiofoniche e televisive, grandi e piccole, che una trasmissione ha offeso, che certe cose sarebbe meglio darle in dosi meno massicce, che certe altre andrebbero trasmesse rispettando almeno una certa fascia oraria, che certi linguaggi sarebbero facilmente evitabili solo se lo si volesse. Queste cose andrebbero fatte sapere a chi di dovere anche se non ci sono rispondenze nelle coscienze a causa dell’aspetto economico che hanno fatto diventare merce anche le notizie e gli spettacoli. Ma qual è l’imprenditore che non si preoccupa se la propria clientela reagisce in modo negativo al modo in cui è confezionato il suo prodotto? Prendere coscienza di queste cose e farsi sentire, credo sia un dovere di tutti. E forse, tutti insieme, possiamo anche essere ascoltati».

A.F.

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