Toscana

Islam e Occidente: così la sfida può diventare incontro

di Giorgio PaolucciIl terremoto che si è scatenato con la pubblicazione delle vignette satiriche su Maometto ripropone una domanda antica e sempre drammaticamente nuova: Islam e Occidente sono destinati allo scontro? C’è qualcosa che li rende geneticamente incompatibili o è possibile costruire un codice di convivenza? La storia ci racconta un rapporto che si è alimentato di incontri e scontri. La fulminea espansione dell’impero arabo-islamico nel settimo secolo, a spese di quello romano e di quello persiano, la penetrazione della mezzaluna in Europa, le Crociate, le conquiste coloniali, la nascita degli stati nazionali seguita alla decolonizzazione, sono i principali capitoli di un libro che si dipana lungo quattordici secoli e che hanno lasciato un’eredità che pesa sull’oggi. Più recentemente, l’arrivo in Europa di 15 milioni di immigrati provenienti dai Paesi islamici ha posto nuovi interrogativi e insieme offerto nuove chance all’elaborazione di una strategia di convivenza.

Per capire ciò che sta avvenendo non si può prescindere dall’espansione che la concezione fondamentalista e radicale dell’Islam ha conosciuto da almeno trent’anni, e di cui il terrorismo è il frutto maturo e avvelenato. Il fondamentalismo si sviluppa come reazione ai fallimenti dei modelli di sviluppo elaborati nel mondo arabo, e insieme come opposizione all’Occidente «corrotto». Predica l’interpretazione più tradizionalista e rigida del Corano, l’applicazione intransigente della sharia, il «ritorno all’islam» come panacea di tutti i mali. L’aumento del prezzo del greggio ha portato nell’area ingenti quantità di petrodollari che consolidano l’avanzata dell’integralismo grazie alla costruzione di migliaia di moschee e all’attivismo degli imam che trasmettono una concezione radicale dell’Islam mescolata a un’ostilità nei confronti dell’Occidente considerato come «il grande Satana».

A fare le spese di questa dinamica sono soprattutto le minoranze cristiane, identificate come una sorta di quinta colonna della cultura e della politica occidentale, e la cui consistenza sta progressivamente diminuendo fino al punto che c’è chi ne prevede la scomparsa nell’arco di qualche decennio. Emblematica di questa perversa identificazione tra l’Occidente-nemico e il cristianesimo è l’assassinio di don Andrea Santoro in Turchia, ma molti altri sono gli esempi che potrebbero essere portati in questa direzione. Ciò non significa, beninteso, negare la possibilità di una pacifica convivenza tra cristiani e musulmani di cui si trovano numerose testimonianze in tutti i Paesi islamici; ma è indubbio che il fondamentalismo sta scavando un solco sempre più largo in nome dell’odio per tutto ciò che non appartiene alla umma.

Che fare? Non esistono formule magiche per problemi così complessi e radicati, e quello che sta accadendo in Iraq conferma il giudizio espresso in varie occasioni dalla Santa Sede sull’inadeguatezza della guerra come strumento per la soluzione delle crisi. Al di là del protagonismo mediatico e dell’indubbia capacità di mobilitazione delle folle che i gruppi radicali stanno dimostrando, c’è nelle popolazioni musulmane un diffuso desiderio di libertà, di pace, di democrazia e di sviluppo che peraltro non si esprime come meriterebbe. L’Occidente viene visto come il luogo dove questi valori – pur in maniera incompleta e talvolta contraddittoria – vengono riconosciuti e praticati. E la presenza in Europa di milioni di immigrati provenienti dai Paesi islamici può rappresentare una chance preziosa per i destini dell’umanità intera. Qui essi sperimentano che è possibile vivere da credenti in un contesto di laicità (come da secoli hanno imparato a fare cristiani ed ebrei) e che la democrazia e il pluralismo (pressoché sconosciuti nei loro Paesi di origine) non sono nemici della religione, ma potenti strumenti per la convivenza tra diversi. Qui vedono praticata la parità tra uomo e donna e la libertà di coscienza e di religione, che permette di esprimere la fede nel rispetto delle leggi vigenti e di convivere con credenti e atei.

L’immigrazione rappresenta dunque un’epocale occasione per scrivere nuove pagine nel rapporto tra islam e Occidente, e nel lungo periodo potrebbe sortire un positivo effetto-boomerang nei confronti dei Paesi islamici di provenienza. Per questo è necessario abbandonare le utopie del multiculturalismo di basso profilo in cui troppi si sono cullati, e agire con determinazione sulla strada dell’integrazione, proponendo con chiarezza anche ai musulmani le regole che governano la nostra convivenza, esigendone il rispetto senza equivoci di sorta e garantendo l’esercizio delle peculiarità legate alla loro fede purché compatibili con l’ordinamento italiano.

L’autoreGiorgio Paolucci, autore dell’articolo, è caporedattore di «Avvenire». Da vent’anni si occupa delle problematiche legate all’immigrazione e all’Islam. Ha pubblicato Islam, una realtà da conoscere e, insieme a Camille Eid, Cento domande sull’Islam, entrambi per Marietti. Mentre per Piemme ha pubblicato di recente, sempre in collaborazione con Camille Eid, il volume I cristiani venuti dall’Islam – Storie di musulmani converti, con prefazione di Samir Khalil Samir.

Soprattutto in Cento domande sull’Islam, gli autori cercano di rispondere in maniera originale a una serie di interrogativi da tempo presenti nell’opinione pubblica e che hanno assunto un peso ancora più consistente dopo l’attentato alle Torri Gemelle, i successivi conflitti in Afghanistan e in Iraq e gli ulteriori attentati.

L’intervistaBranca: «La speranza sono i giovani, ma attenti a costruuire ghetti»di Maria Chiara Biagioni«No alle manifestazioni di piazza perché «è prioritario adoperarsi affinché una giusta reazione a quanto accaduto non si trasformi in un danno per la comunità stessa e per la relazione con il resto della società europea e italiana». È la decisione finale presa nei giorni scorsi dalla direzione dell’Ucoii (Unione delle comunità islamiche in Italia). Ne parliamo con Paolo Branca, docente di Lingua araba all’Università Cattolica di Milano.

Che idea si è fatto del caso danese?

«Penso che da una parte ci sia un legittimo disagio da parte dei musulmani che non sono abituati a vedere i simboli sacri oggetto di satira. Ovviamente le reazioni che ci sono state nei Paesi islamici con manifestazioni e addirittura attacchi alle ambasciate sono chiaramente una strumentalizzazione da parte di minoranze appoggiate in qualche modo anche dai governi. Sono Paesi in cui non è possibile organizzare facilmente grandi manifestazioni se non c’è un appoggio, anche se non manifesto, da parte delle forze di sicurezza».

Come si è comportato, secondo lei, il mondo musulmano moderato in Italia?

«Da quello che ho visto e letto, si sono dimostrati capaci di indirizzare la loro protesta verso canali ufficiali come per esempio ha fatto l’Ucoii che si è rivolta all’ambasciatore danese in Italia. C’è stato poi chi ha sconfessato alcune manifestazioni dicendo che erano controproducenti e invitato a non cadere nella trappola della provocazione. E questo è molto interessante perché vuol dire che chi vive in un ambiente democratico, piano piano impara a utilizzare gli strumenti legittimi per esprimere la propria protesta senza finire nella violenza. È forse indice che l’Islam in Europa possa diventare gradualmente un Islam alternativo alle forme più esasperate».

Quanto l’Islam europeo è in grado di rapportarsi con la cultura moderna?

«Credo che vivendo tra di noi, i musulmani si siano resi conto del significato che noi diamo a certe cose e lo possono quindi contestualizzare e relativizzare. Il fatto è che al di là delle questioni religiose, noi non ci capiamo da un punto di vista antropologico. Lo stesso linguaggio che utilizziamo quando ci rivolgiamo per esempio a un professore o a un genitore, spesso li lascia perplessi. Oppure un ragazzo arabo che fuma, non lo fa certamente davanti al padre. I musulmani che vivono tra noi, apprendono gradualmente a contestualizzare questi linguaggi di vita».

Quanto di questo Islam moderato riesce poi a penetrare nel mondo arabo?

«Anche in lingua araba, le cose più interessanti sono pubblicate spesso a Parigi o a Londra. Il guaio è che chi è tra di noi, finisce molto spesso per assimilarsi, perdendo la lingua e la cultura di origine. Per questo, per esempio, è importante che i musulmani mantengano la conoscenza della loro lingua d’origine e la loro identità, accanto a quella occidentale che, comunque sia, acquisiscono spontaneamente. Da questo punto di vista si è fatto molto poco nelle scuole e stiamo cominciando proprio adesso a Milano dopo la chiusura della scuola di via Quaranta a fare corsi di arabo nelle scuole pubbliche. La speranza è che un domani queste persone possano giocare un ruolo di mediazione anche nei Paesi di origine».

Spesso purtroppo si ha l’impressione di una certa ambiguità.

«È vero, alcuni possono giocare su registri diversi a seconda che si rivolgano ad un pubblico occidentale o a uno orientale. Ma non bisogna lasciarsi vincere dalla semplice diffidenza. Io, per esempio, ho un’impressione molto positiva nei giovani».

Eppure a Londra i kamikaze sono stati proprio dei giovani.

«Bisogna anche qui contestualizzare: sia in Francia sia in Gran Bretagna esistono quartieri popolati solo da immigrati. Non è, quindi, una vera integrazione, ma una specie di collage di comunità differenti. In Italia, grazie al cielo, non siamo a questo livello e dobbiamo fare di tutto per non costruire questi ghetti. Purtroppo qualche segnale preoccupante c’è: ci sono per esempio scuole dove sono concentrati gli immigrati dalle quali gli italiani portano via i propri figli. Si rischia di riprodurre un modello che ha fatto dei disastri nel Nord Europa».

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