Toscana

Lavoro precario in Toscana, penalizzati donne e anziani

di Ennio Cicali

La f1essibilità è stata un ottimo canale per entrare. E usi questo termine: flessibile, flessibile, flessibile. Dopo tre anni usi più spesso il termine precario, è proprio la sensazione che cambia. All’inizio ero contenta di essere flessibile. Però, dopo tre anni, uno ha davvero bisogno di una prospettiva che dia un pochino di più quella famosa sicurezza. Quando capisci che quella prospettiva si allontana sempre di più e che probabilmente non arriverà mai, ti senti, tutto ad un tratto, precario. Io lo vivo in questo periodo ed è molto destabilizzante rispetto alle scelte che devi fare, o meglio che vorresti fare per la tua vita privata» risponde così una laureata in scienze politiche (36 anni) una  dei 900 intervistati da Francesca Giovani che ha condotto per l’Irpet (l’istituto regionale per la programmazione) un’indagine sulla stabilizzazione dei lavoratori precari in Toscana. Lavoratori seguiti nella loro carriera dal 2000 fino al 2006. Indagine che conferma l’emergere di una crescente area di occupazione debole, meno tutelata, a rischio di precarizzazione.

Le donne sono le prime vittime del lavoro precario: solo il 42%, a distanza di sei anni, lavora in modo stabile, contro il 61% degli uomini. A rischio anche i non più giovani: solo il 43% degli ultratrentacinquenni si è stabilizzato, contro il 51% dei più giovani. Le differenze non sono solo di natura anagrafica, ma anche geografica, come dimostrano i risultati dei cinque sistemi produttivi presi in esame: a Rosignano (turistico) e Follonica (turistico rurale) si è stabilizzato, rispettivamente, il 29% e il 48% degli intervistati, contro il 58% di Firenze (sistema urbano), il 51% di Santa Croce (distretto industriale) e il 51% del Mugello (turistico industriale).

La stabilizzazione più elevata si registra nell’industria, circa la metà degli intervistati, contro quote molto inferiori nel commercio (meno del 30%), servizi alle persone (22%), degli alberghi e ristoranti (21%). «Sono dati che ci spingono a concentrare ancora di più i nostri sforzi per una occupazione non precaria e di qualità, su politiche che consentano a tutti i cittadini di trovare non semplicemente un’occupazione ma anche una buona occupazione. – così commenta i risultati dell’indagine Gianfranco Simoncini, assessore regionale all’istruzione e lavoro – Dobbiamo puntare anche su iniziative di welfare e su servizi che tendano ad offrire pari opportunità e diritti a chi lavora in forme flessibili».

Formazione e istruzione hanno ruolo importante nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro. Per questo, spiega Simoncini, ci sono iniziative che prevedono che prevedono sportelli per consulenza e l’orientamento, una carta prepagata fino a 2500 euro, per la formazione individuale. I diplomati hanno le più elevate probabilità di stabilizzazione (il 53% contro il 46% di chi non ha nessun titolo di studio e il 43% dei laureati). Per i laureati, vi sono dei casi in cui la permanenza nel lavoro flessibile è una scelta, fatta per accumulare esperienze nella attesa del lavoro cui si aspira. Francesca Giovani, coordinatrice della ricerca, spiega che la stragrande maggioranza degli intervistati ha risposto di non avere avuto altra scelta (82%). Nel 2000 era il 54% degli intervistati e nel 2004 il 61%.

È evidente che i lavori atipici non hanno avuto un effetto trampolino verso un’occupazione stabile, o almeno non allo stesso modo per tutti e ovunque. Sono soprattutto le donne a dichiarare di avere subito un percorso lavorativo flessibile (85% contro il 76% dei maschi). Se il presente è all’insegna dell’instabilità, non è molto diversa la percezione del futuro. Solo il 13% degli intervistati ritiene possibile il raggiungimento di un contratto a tempo indeterminato. A questa scarsa fiducia nel futuro lavorativo, si accompagnano le incertezze relative al welfare: solo il 17% degli intervistati si aspetta, infatti, di percepire in futuro una pensione adeguata, mentre il 60% non crede in questa possibilità.