Toscana

Pensioni, senza riforme il sistema non reggerà

L’intervista

di Claudio Turrini

«Se mi sente un sindacalista mi spara alle gambe». Il prof. Augusto Bellieri dei Bellieri, 64 anni, ordinario di economia e tecnica dei fondi pensione, sa di essere impopolare. Ma da matematico abituato a far le bucce ai sistemi pensionistici, a calcolarne con precisione la sostenibilità, sente l’obbligo di parlar schietto. Andare in pensione a 60 anni è una follia, oltre che uno spreco di risorse umane. E se l’Italia non pone mano a riforme strutturali il nostro sistema pensionistico è destinato a saltare.

Professor Bellieri, dal ’95 ad oggi non si fa che parlare di riforme del sistema previdenziale. Ma è finita l’era della pensione?

«No, la pensione mantiene tutta la sua validità. Il problema è trovare un equilibrio tra flussi dei contributi e flussi delle pensioni».

E in Italia questo equilibrio manca?

«Purtroppo la questione è stata impostata male fin dall’inizio. Il nostro sistema è – come si dice tecnicamente – a “ripartizione”, cioè i contributi che paga oggi chi lavora non vengono accantonati e fatti fruttare per la pensione futura, ma servono per pagare le pensioni esistenti».

E così non è possibile trovare un equilibrio?

«Si può anche trovare l’equilibrio tecnico, ma solo se il valore attuale dei contributi è pari al valore attuariale delle prestazioni future. Ma da noi ha inciso molto la politica dei decenni passati, quando si sono incrementate certe pensioni, senza pensare che poi andavano pagate. E poi c’è anche un fattore demografico: coloro che lavorano si sono ridotti in termini assoluti e percentuali, e riducendosi i contributi non ci sono i soldi per pagare le pensioni».

In effetti i dati sono impressionanti. Il tasso di vecchiaia in Italia nel 1961 era del 38,9%. Adesso siamo già al 138% e nel 2050 sarà addirittura del 264%…

«Purtroppo per il sistema pensionistico, ma fortunatamente per noi, la vita media si è allungata. Nei 15 anni passati questa vita media è aumentata di 2,5 anni. Se questo accadesse ogni decennio…».

Senza tener conto che la medicina potrebbe presto far compiere dei «salti» alle speranze di vita.

«Ieri è stato assegnato il premio Nobel a due medici che hanno studiato il genoma. Queste scoperte sono tali da far pensare che la vita media si allungherà di molto, anche di dieci anni, perché possono essere soppressi quei geni che producono malattie. A quel punto il sistema pensionistico salterebbe. Quando si fanno ragionamenti sulle pensioni si fanno in base a previsioni. Nessuno ha la sfera di cristallo. Lo statistico è come un’automobilista che guida guardando solo lo specchietto retrovisore: se c’è una curva all’improvviso non la vede».

Veniamo alle riforme necessarie. Come giudica la decisione di non farle in Finanziaria?

«L’aver spostato la riforma delle pensioni ad una legge apposita, da varare nel primo semestre del 2007, è positivo, perché bisogna incidere strutturalmente, non pensare solo a far cassa».

Quali sono i problemi da affrontare?

«Direi tre fondamentalmente. Il primo è contingente. È il cosiddetto “scalone”, cioè la finestra che nel 2007 permette di andare in pensione ancora con 57 anni di età e 25 anni di contributi. Verrà lasciata? Il ministro Damiano ha detto di essere già d’accordo con Padoa Schioppa per mantenere inalterata questa possibilità. Ma finora Padoa Schioppa era per anticipare lo “scalone” del 2008 (60 anni di età e 35 di contributi). Se si incentivano i pensionamenti anticipati poi ci si ritrovano negli anni successivi».

E gli altri problemi?

«Un’altro, fondamentale, è l’età pensionabile. Pensare che uno a 60 anni vada in pensione, è assurdo. Tra i 60 e i 70 anni si hanno oggi delle persone straordinariamente valide, con un’esperienza molto forte. Tra i notai, che hanno una loro cassa autonoma, non c’è n’è uno che vada in pensione prima dei 72 anni. Un po’ perché sono incentivati dai risultati economici che ottengono. Ma anche perché, come tutti noi, se andassero in pensione a 60 anni cosa farebbero? Andrebbero ai giardinetti? Non credo sia l’aspirazione di nessuno. Che lascino l’età bassa per i lavori usuranti ma per gli altri sarebbe logico portarla a 65 anni. Invece si parla di 62 anni. In Italia abbiamo un rapporto spesa pensionistica/pil a più del 14% mentre negli altri paesi in media è del 10,6%. C’è una bella differenza. Se non si prende atto di questi numeri si trovano solo palliativi».

Almeno si potrebbe incentivare chi vuole e può rimanere al lavoro.

«Questo sarebbe auspicabile. E non capisco come i sindacati possano pensare che questa sia una cosa intoccabile. È poco politico dire “aumentiamo l’età pensionabile”, ma almeno facciamolo su base volontaria, con forti incentivazioni».

«Scalone», età pensionabile… e poi?

«Poi c’è il problema dei coefficienti di trasformazione, che sono quelli che permettono – sulla base dell’età, della persona e del suo montante contributivo – di stabilire qual è la pensione annua di un lavoratore. Questi coefficienti, attualmente definiti dalla legge Dini, sono strettamente dipendenti dalle speranze di vita della persona. Se alla fine della mia attività lavorativa ho accumulato 100, e lo devo spalmare in 24 anni è un conto; se lo devo spalmare in 30 è tutta un’altra cosa. La riforma Dini prevedeva ogni 10 anni una verifica. Il ministro Damiano e altri hanno già detto che non si toccano. Ma se non si modificano non sarà possibile continuare a pagare le pensioni».

Ma un lavoratore dipendente che versi 40 anni di contributi, cioè il massimo, quanta pensione si garantisce con i suoi versamenti?

«È un calcolo non facile. In media forse esaurirà l’equivalente di quanto accumulato 3-4 anni prima della morte. Tenga però presente che questi accumuli sono tutti fittizi essendo il sistema a ripartizione. Bisognerebbe andare verso un sistema virtuoso in cui quello che il dipendente e il suo datore di lavoro pagano non vada a confluire nel calderone in cui tutti attingono, ma in un suo conto particolare. Ecco in un sistema così mi sentirei molto più tranquillo, anche se dubito che ci si arriverà mai».

C’è anche un problema di entità della pensione.

«Col sistema attuale, un giovane assunto oggi non potrà avere più del 50% del suo ultimo stipendio. Dovrà trovare lui delle forme sostitutive, come la previdenza complementare o le assicurazioni private, per poter avere al momento della pensione l’equivalente del suo ultimo stipendio».

Per i giovani c’è anche il problema della precarietà e del ritardo nell’accesso al mondo lavoro.

«Questi giovani con contratti provvisori o lavori saltuari versano per la previdenza cifre irrisorie rispetto alla possibilità di avere una pensione domani. Avranno delle pensioni che non servono quasi a nulla. Qui il problema è di incentivare il decollo dell’economia, in modo che possa assorbire nel mondo del lavoro stabile questi giovani, che hanno in genere anche un’ottima preparazione».

Dovremo comunque tutti pensare di più alla previdenza integrativa.

«Non siamo ancora abituati a ragionare in questi termini. Se uno pensa al suo futuro e sa che andrà in pensione con il 50% o meno del suo ultimo stipendio, deve pensare ad un accumulo sistematico per far fronte al 50% mancante. Questa previdenza integrativa dal ’92 ad oggi non è granché decollata. Si spera che con una maggiore informazione – e la finanziaria stanzia fondi apposta – possa finalmente svilupparsi».

Informazione a parte, cosa si potrebbe fare per incentivarla?

«Adesso al 65° anno di età il lavoratore può disporre solo del 50% del capitale accumulato. Se fosse tolto questo vincolo, decollerebbe meglio. Anche se rimarrebbe la sfiducia sulle gestioni. Chi mi garantisce che i miei soldi vengano gestiti bene? Se lo Stato si facesse garante di un certo rendimento e si togliesse il vincolo del 50% penso che decollerebbe subito».

Gli scenari demografici Nel 2050 in Italia avremo 264 anziani ogni 100 giovani di Silvana Salvini Ordinario di Demografia – Università di Firenze

Il processo di invecchiamento è il frutto del controllo dell’uomo sulla demografia: una mortalità e una fecondità sempre più bassa come risultato dell’intervento sulla mortalità prematura e sulla fecondità indesiderata. La struttura per età della popolazione rispecchia i movimenti demografici delle generazioni passate: l’eliminazione per morte che si verifica ad età sempre più elevate (nel 2005 la vita media maschile e femminile è pari a 77,4 e 83,3 anni rispettivamente) ed i mutamenti della propensione ad avere figli (sempre più diffuso il modello del «figlio unico» e la tarda età in cui il figlio è avuto: in media le donne italiane hanno oggi 1,34 figli e l’età media al parto ha raggiunto i 31 anni).

In sintesi, mentre ovviamente non si può che valutare positivamente l’aumento della sopravvivenza, non si può dire la stessa cosa per la dinamica della fecondità, che, per costrizioni economiche, ritardi nel raggiungimento dell’età adulta, inconciliabilità lavoro-famiglia, scarsi investimenti pubblici, è andata ben al di sotto del livello di sostituzione generazionale ed al numero desiderato di figli (circa 2 figli per donna).

Secondo i risultati dello scenario intermedio delle proiezioni al 2051 effettuate dall’Istat, la popolazione italiana diminuirà del 5% nei prossimi 50 anni. Un declino rapido, come quello che appare un destino inevitabile visto l’attuale profilo demografico, comporterà infatti conseguenze certe e indesiderabili. Per esempio, tra il 2005 e il 2030 la popolazione in età attiva giovane (20-45 anni) passerà da 20,3 a 14,1 milioni (-30,5%) e quella adulta e anziana (dai 45 ai 70 anni) da 18,4 a 20,2 (+11,2%). E tra pochi decenni le donne con più di 80 anni saranno più numerose delle ragazze che si affacciano alla vita feconda. L’indice di vecchiaia che misura il rapporto fra anziani (65+) e giovani (0-14) cresce costantemente per tutto il periodo di previsione, passando da 138 anziani per 100 giovani nel 2005 a 264 nel 2050.

L’Italia è il paese più «vecchio» del mondo (quasi il 20% della popolazione ha 65 anni e oltre) e la dinamica combinata della sua componente naturale, sebbene in parte attutita dall’aumento dei flussi migratori composti in larga misura da giovani a fecondità più elevata della media italiana, non suggerisce un grande ottimismo circa la crescita futura.

Il rapido invecchiamento comporta infatti un ridimensionamento dei meccanismi dei trasferimenti intergenerazionali, il flusso di ricchezza che deriva da coloro che producono (e saranno sempre meno) a favore di coloro che, in numero sempre crescente, non lavorano più. Probabilmente in una situazione sociale di questo tipo sarà molto difficile mantenere un alto tasso di produttività e di incremento dello sviluppo economico. Il sistema previdenziale potrebbe assorbire una fetta ancora più consistente del prodotto interno lordo e quindi potremmo assistere a tutta una serie di ripercussioni che una struttura per età fortemente invecchiata porta sul sistema di welfare.

E anche se questo fenomeno può essere visto con favore da alcuni (una minore popolazione può significare una minore pressione demografica, un minore inquinamento, una minore congestione urbana, ad esempio), difficilmente le modifiche strutturali che certamente si verificheranno possono essere ritenute compatibili con un’evoluzione armoniosa della società. La questione non è quindi se in Italia si vivrebbe meglio con un numero minore di abitanti, ma piuttosto se un rapido declino demografico sia sostenibile senza che la società ne esca impoverita, da un punto di vista economico, sociale e politico.

L’invecchiamento è inevitabile e già scritto nell’attuale struttura per età della popolazione. L’immigrazione ha indubbiamente un ruolo importante nel contenere l’impoverimento del mercato del lavoro legato al declino della natalità. Tuttavia le migrazioni di per sé non appaiono sufficienti per un futuro demografico armonioso. La lieve ripresa di fecondità recentemente rilevata potrà essere favorita sia da interventi politici tesi a facilitare la transizione dei giovani allo stato adulto e a limitarne la precarietà legata alla diffusione dei lavori atipici, sia dall’incremento degli aiuti alle famiglie e alle donne per la conciliazione della vita familiare con quella lavorativa.

La scheda Di modifica in modifica, ecco com’è cambiato il sistema previdenziale Il periodo 1968 – 1969 rappresenta una tappa storica per il sistema pensionistico italiano: il sistema retributivo, basato sulle ultime retribuzioni percepite, sostituisce quello contributivo nel calcolo delle pensioni. Nasce la pensione sociale: i cittadini bisognosi che hanno superato i 65 anni di età riceveranno ogni mese un importo che soddisfi i loro bisogni vitali. Sono predisposte misure straordinarie a tutela dei lavoratori (Cassa integrazione guadagni straordinaria e pensionamenti anticipati) e per la produzione (contribuzioni ridotte ed esoneri contributivi).

Nel 1990 è attuata la riforma del sistema pensionistico dei lavoratori autonomi. La nuova normativa, che ricalca per vari aspetti quella in vigore per i lavoratori, lega il calcolo della pensione al reddito annuo di impresa.

Nel 1992 il governo Amato ridimensiona drasticamente il sistema pensionistico: l’età minima per la pensione di vecchiaia è elevata a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne. Tra gli interventi più drastici è l’abolizione dell’aggancio delle pensioni alla dinamica retributiva, resta solo l’indicizzazione al costo della vita, posticipata al 1° gennaio dell’anno successivo. Il provvedimento determina una sensibile perdita del potere d’acquisto in termini reali. In pratica, i pensionati sono destinati a “impoverirsi” anno per anno. Per le pensioni più alte è un impoverimento relativo, per quelle più basse è un impoverimento assoluto che cresce di anno in anno, tanto più ci si allontana dal momento del pensionamento. Nel 1993 è introdotta in Italia la previdenza complementare per affiancare alla tutela pubblica forme di assicurazione a capitalizzazione di tipo privatistico.

Nel 1995 è emanata la legge di riforma del sistema pensionistico (legge Dini) che si basa su due principi fondamentali: – il pensionamento flessibile in un’età compresa tra i 57 e i 65 anni (uomini e donne); – il sistema contributivo è calcolato sull’ammontare dei versamenti effettuati durante tutta la vita lavorativa.

Nel 2004 è approvata la legge delega sulla riforma delle pensioni. La maggior parte delle norme sarà operativa dal 2008, mentre è entrato subito in vigore il provvedimento relativo all’incentivo per il posticipo della pensione.

Cosa prevedono le norme approvate nel luglio 2004 L’ultima riforma delle pensioni è quella approvata il 28 luglio 2004, ma le cui novità saranno operative dal 2008. Per le pensioni di anzianità si cambia dal 2008, quando i lavoratori dipendenti potranno andare in pensione con 35 anni di contributi e 60 anni di età; i lavoratori autonomi con 35 di contributi e 61 di età. Per tutti è prevista la possibilità di andare in pensione con 40 anni di contributi a prescindere dall’età. Dal 2010 poi i requisiti diventeranno 35 + 61 per i lavoratori dipendenti e 35 + 62 per quelli autonomi (oppure 40 anni di contributi).

Dal 2014, infine, oltre ai 35 anni di contributi, serviranno 62 anni di età per i dipendenti e 63 per gli autonomi (oppure 40 anni di contributi). Le donne avranno la possibilità di andare in pensione, anche dopo il 2008, con i requisiti previsti dalla normativa attualmente in vigore (35 + 57), ma la pensione sarà interamente calcolata con il sistema contributivo.

La riforma prevede anche una riduzione delle «finestre» di uscita dal 2008 (da quattro a due) Per le pensione di vecchiaia, dal 2008 verranno liquidate esclusivamente con il sistema contributivo e l’età pensionabile sarà elevata da 57 a 65 anni di età per gli uomini e 60 per le donne (in alternativa si potrà andare in pensione con il solo requisito contributivo di 40 anni).

Previsto anche un incentivo per il posticipo, entrato già in vigore: fino al 2007 i dipendenti del settore privato, in possesso dei requisiti per la pensione di anzianità possono rinviare il pensionamento usufruendo di un bonus esentasse pari al 32,7% della retribuzione lorda. Chi sceglie di restare al lavoro ottiene un aumento in busta paga pari alla contribuzione previdenziale: il 32,7% dello stipendio lordo per quasi tutti i lavoratori (l’incremento sale al 33,7% sulla fascia di retribuzione annua che eccede i 37.883 euro).