Toscana

Una rete di «Hospice» per le malattie inguaribili

di Simone Pitossi

Hospice, una definizione importata, che nella nostra lingua ricorda ancora, a chi non li conosce, luoghi di sofferenza abbandonata e di triste solitudine, gli «ospizi» per anziani. Aver deciso di utilizzare questo termine è stata probabilmente una scelta di ritorno alle origini, a quando gli «ospizi» erano luoghi di protezione e ristoro dei pellegrini. Non siamo forse noi tutti pellegrini deboli e insicuri quando la vita si avvicina alla fine a causa di una malattia ormai inguaribile? «Hospice» – come ci ha spiegato il dottor Massimo Piazza, responsabile del centro di cure palliative «San Felice a Ema» a Firenze – è da intendersi innanzitutto quale «luogo di solidarietà, di aiuto e, se possibile, di amore, ma anche area di lavoro nella quale devono incontrarsi precise conoscenze scientifiche e professionalità esperte inserite nel reale processo di continuità nell’assistenza ai malati e nel supporto al loro nucleo famigliare e affettivo».

Un luogo che «rappresenta un’estensione del domicilio quando, per differenti motivi primo fra tutti la volontà del malato, l’assistenza a casa non è possibile in modo definitivo o temporaneo». Luogo dove non «si va a morire» ma a vivere al meglio una fase naturale della propria esistenza, nel quale è possibile trascorrere anche periodi «di sollievo» e dal quale è sempre possibile tornare a casa, quando lo si desideri.

L’hospice, indissolubilmente legato alle cure domiciliari, è uno dei due poli essenziali della rete delle cure palliative che, nel nostro Paese, dovrebbe assistere le 250 mila persone che ogni anno attraversano le fasi avanzate e finali di una malattia inguaribile. Cure palliative, un altro termine che suona negativo nella nostra lingua, ma che, ormai da tempo, è stato ricollegato nel suo significato originario, derivato dal termine latino «pallium», il mantello che protegge. Cure palliative, la rete assistenziale che si prende cura della persona anche quando la guarigione è un obiettivo, purtroppo, impossibile. «Hospice e cure domiciliari – sottolinea Piazza – non possono esistere indipendentemente gli uni dalle altre: questa è la scelta programmatoria in atto nel nostro Paese, basata sia sulle esperienze più avanzate sia sull’analisi della situazione socio-culturale ed economica».

La rete di assistenza domiciliare di cure palliative si è notevolmente sviluppata a partire dalla fine degli anni ’70, grazie all’indispensabile sostegno delle tante organizzazioni attive nel settore. Sino al 2000 gli hospice erano invece la «Cenerentola» della rete, contandosi sulle dita di una mano quelli attivi. Questo percorso viene invertito nel 1999 quando fu approvata (per volontà dell’allora ministro Rosi Bindi) la Legge n. 39, che mise a disposizione delle regioni ingenti finanziamenti, 206,6 milioni di euro, per realizzare circa 200 nuovi hospice. I Ministri della Sanità e poi della Salute successivi hanno contribuito a rinnovare lo stimolo alle regioni, soprattutto a quelle che non ritenevano una priorità lo sviluppo delle cure palliative e degli hospice, nonostante la «assistenza ai malati terminali», sin dal 2001, fosse stata inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza. I finanziamenti sono stati incrementati nel 2006, dalla Legge n. 296/96, la «Finanziaria 2007» che ha previsto «100 milioni di euro a interventi per la realizzazione di strutture residenziali dedicate alle cure palliative con prioritario riferimento alle regioni che abbiano completato il programma realizzativo di cui all’articolo 1, comma 1, del decreto legge 28 dicembre 1998, n. 450, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1999, n. 39, e che abbiano avviato programmi di assistenza domiciliare nel campo delle cure palliative».

Anche la Regione ha deciso di puntare in modo deciso sulla rete degli Hospice. In una delibera del 2008 si pensava di poter attivare tutta le rete «entro il primo trimestre 2009». Rete, come detto, prevista dalla legge nazionale 39/1999 attuata con due deliberazioni del Consiglio regionale (n.128/2000 e n.61/2002) che prevedevano l’«attivazione di 158 posti letto (+8 in regime diurno), ai quali si sono aggiunti ulteriori 20 posti letto per complessivi 178 posti letto (+8 in regime diurno), con un rapporto di 47 posti letto per 1 milione di abitanti, in linea con gli standard programmatici di riferimento che indicano un valore da 30-50 posti letto per 1 milione di abitanti».

È passato un anno alla scadenza prevista e il programma ancora non è stato completato. Comunque, in Toscana gli hospice attivi sono 17 (uno aprirà nel prossimo giugno) per un totale di 130 posti letto (più 4 della nuova struttura). La distribuzione è abbastanza omogenea sul territorio regionale: al momento solo le Asl 1 (Massa Carrara) e 11 (Empoli) risultano scoperte ma con strutture in progetto per il 2010-2011.

Pazienti e famiglie chiedono umanità

Sono luoghi di frontiera dell’umanità. Per il paziente, per i familiari ma anche per il personale – medico e infermieristico – che ogni giorno si confronta con il dolore e, spesso, con la morte. Il dottor Massimo Piazza è il responsabile dell’Hospice «San Felice a Ema» di Firenze (Usl 10). Si tratta di una struttura inaugurata nel 2008, totalmente nuova e molto accogliente. «Il ruolo – spiega il dottore – del nucleo familiare, quando presente, è sicuramente fondamentale e preferibile. Lì è necessario assicurare le cure in tutti gli aspetti. La nostra è solo un’arma in più: in situazioni in cui la famiglia, se c’è, non riesce o non può assistere a casa il malato terminale, allora interveniamo noi. L’hospice è la via di mezzo tra il ricovero in ospedale, che non è in grado di trattare certe patologie, e le residenze assistite per anziani. Qui c’è la presenza permanente del medico, il supporto necessario per tutte le fasi della malattia, il supporto psicologico per il paziente e la famiglia. Nella maggior parte si tratta di pazienti oncologici: il 95% appartiene a questa categoria. Anche se si stanno affacciando nuove patologie come scompensi cardiaci, cirrosi, insufficienza respiratoria grave, Sla, patologie neurologiche».

Per quanto riguarda le domande di famiglie e pazienti il discorso è più difficile. «Le famiglie – continua –, in genere, chiedono il rispetto della dignità del congiunto, si informano sul tipo e grado di sofferenza che potrebbe affrontare. Per il paziente il discorso è diverso. Innanzitutto per il grado di consapevolezza che ha della malattia e, soprattutto, della prognosi. Comunque in genere viene richiesta una relazione umana, un’assistenza personalizzata, una particolare attenzione al suo stato. La paura? In genere è quella del dolore. Ma su questo campo siamo attrezzati a combattere. Mentre il nostro grande nemico è la fatica a respirare, l’affanno che in questi pazienti, purtroppo, è molto comune». Infine, spostiamo il discorso dalla parte degli operatori. «Il personale che lavora qua – spiega – è tutto volontario. Importante per chi si trova a confrontarsi ogni giorno con situazioni di questo genere è la formazione. Anche se il coinvolgimento emotivo è sempre forte. È difficile – conclude il dottor Piazza – fare questo lavoro con una corazza».

Il dottor Pierdomenico Maurizi è il responsabile dell’Hospice che ha sede presso l’Ospedale del Valdarno (Montevarchi) e che fa parte della rete Usl 8 di Arezzo. Il dottore ci spiega come è organizzato il servizio sul suo territorio: esemplificativo perché è un modo di procedere utilizzato – più o meno – anche dalle altre Usl toscane. «Il territorio di competenza della Usl 8 Arezzo – spiega – è suddiviso in 5 ospedali e 5 zone-distretto. Quindi, se avessimo costruito un unico hospice in una zona, avremmo creato problemi alla popolazione delle altre 4 zone. Così si è iniziato a ricavare hospice all’interno di strutture sanitarie già esistenti in ogni zona. Attualmente quindi abbiamo 3 posti letto (ma sarebbe più corretto definirli moduli abitativi) in Valdarno (presso l’Ospedale di Santa Maria alla Gruccia, Montevarchi) e 2 a Foiano della Chiana (presso il Centro polifunzionale); entro l’anno in corso, dovremmo completare la rete aprendo 2 posti letto in Casentino, 2 posti letto in Valtiberina e 6-8 posti letto ad Arezzo. Si tratta di posti letto voluti dalla Usl aretina e quindi l’istituzione non solo è di aiuto, ma è l’unico artefice e gestore della rete di hospice». Per quanto riguarda il rapporto con i pazienti e le famiglie le domande poste «sono tante e così complesse che mi resta veramente difficile sintetizzarle». «Molte – continua il dottor Maurizi – riguardano aspetti sanitari (guarirò?, guarirà?, camminerò?, camminerà?), altre riguardano il fine vita (quando, come, meglio qui o a casa?). Domande difficili. Le risposte, quando ci sono, sono sempre molto complicate per l’operatore, perché necessitano di conoscere bene le problematiche della comunicazione (soprattutto quella inerente al dare cattive notizie), di rispettare i princìpi etici dell’interessato e di sapere e potere gestire al meglio le proprie emozioni che certe domande scatenano sempre in chi le riceve».

Riccardo Poli è il presidente del Centro regionale di Bioetica «Gianna Beretta Molla» che ha sede a Prato. Il centro rappresenta lo strumento con cui i medici cattolici della Toscana, insieme a chi vorrà collaborare, vogliono approfondire i temi legati all’etica della vita. «In Toscana – spiega Poli –, una delle prime regioni italiane ad attuare con attenzione le normative inerenti l’assistenza al malato terminale, le istituzioni pubbliche intervengono molto bene e con grande professionalità in ambito di medicina palliativa e di lotta al dolore. Molto buona è l’assistenza domiciliare, erogata tramite èquipe multidisciplinari di cui fanno parte medici, infermieri, operatori sociosanitari, fisioterapisti, psicologi. In particolare è da tenere presente l’importantissimo ruolo dell’infermiere. Altrettanto fondamentale è la presenza del medico di famiglia e della stessa famiglia, quando c’è (da tenere presente la possibilità che questi malati siano persone sole). La famiglia, da nucleo sofferente, deve divenire nucleo di cura e, in questo senso, si rivela essenziale, il ruolo anche educativo dell’èquipe di cure palliative». Importante, secondo Poli, il sostegno che viene dato. «Le domande più frequenti spiega – sono proprio quelle inerenti l’assistenza, il sollievo dal dolore e dai sintomi che accompagnano le fasi avanzate di cancro, il sostegno a famiglie sempre più deboli e sole nell’affrontare situazioni così drammatiche. Recentemente – conclude Poli – la Regione Toscana ha anche attivato uno specifico Centro per il sostegno, anche psicologico, ai pazienti affetti da malattie neoplastiche e alle loro famiglie».

P. Ghilardi: «Una presenza amica accanto a chi soffre»

Un ruolo importante e delicato è quello dell’assistente spirituale in questi che sono «luoghi di frontiera». Padre Renato Ghilardi, incaricato regionale della Cet per la Pastorale della Salute, spiega che in tutte le strutture è disponibile un servizio di assistenza spirituale (dedicato o a richiesta) e sostiene che «come ci si prende cura del corpo e della psiche, così ci si deve prendere cura dello spirito». In che modo? «Dare assistenza spirituale – spiega – non significa chiedere al malato di avere un atteggiamento religioso. Significa invece accompagnare la persona malata con il rispetto e la fiducia che le faranno capire di non essere ridotta al puro corpo che soffre, ma che in lei esiste un’altra dimensione, uno spazio sacro, dove né malattia, né offesa, né morte hanno accesso, uno spazio intangibile dove la vita non viene meno: lo spazio spirituale abitato dal divino. Per il credente, il luogo dove abita Dio. Non possiamo però ignorare che il tempo del morire sia un tempo doloroso e difficile per tutti: pazienti, familiari, sanitari, volontari. Si tocca con mano l’impotenza, il limite, la finitezza; nessuno è in grado di impedire l’angoscia dell’altro, siamo però in grado di limitarla trasmettendo al morente la sensazione di essere protetto da una presenza amica; siamo in grado di impedire che questa sofferenza venga vissuta nella solitudine». È importante la formazione del personale, la vicinanza ai familiari e ai pazienti. Non devono sentirti soli. E, secondo padre Ghilardi, «il valore infinito della vita anche nelle fasi di estrema debolezza va sempre tutelato. Invero, fino ad oggi, negli hospice non risultano essere mai state praticate nemmeno forme velate di eutanasia». «Tutta la comunità cristiana – conclude il sacerdote – dovrebbe prendere a cuore queste strutture che hanno bisogno della luce del Vangelo affinché la sofferenza si apra alla speranza».

Assistenza domiciliare, Ci pensano i volontari

L’assistenza domiciliare per i malati terminali in Toscana è assicurata dalle Aziende sanitarie e da associazioni di volontariato. Non è facile ricostruire il quadro completo delle associazioni che operano in questo campo. Ad alcune storiche e a livello nazionale se ne aggiungono altre, più piccole, legate al territorio. Senza la preteza di citarle tutte, ecco un quadro abbastanza aggiornato: Associazione Nazionale Tumori (Ant) che opera a Arezzo, Firenze, Livorno, Pisa, Pistoia, Prato; Associazione Toscana Tumori (Att) presente a Firenze, Prato, Siena; il Calcit; l’associazione «Pallium» che opera a Firenze; la Lega Italiana per la Lotta ai Tumori (Lilt) presente a Massa Carrara, Pisa, Pistoia, Prato, Siena; l’associazione «Il volto della speranza» di Carrara; l’associazione oncologica pisana «P. Trivella»«Qualità della vita in oncologia» (Qua.Vi.O.) di Siena; l’Associazione cure palliative di Livorno.

Come lavorano? Facciamo un paio di esempi. L’Associazione toscana tumori (Att) cura gratuitamente e a domicilio i malati oncologici, 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno, festivi inclusi. Attualmente l’Att assiste quotidianamente circa 300 pazienti con un’équipe polispecialistica composta da 10 medici, 3 psicologi, 8 infermieri professionali, 5 operatori socio sanitari ed 1 fisiatra. «L’associazione agisce in accordo con il medico di famiglia – spiegano dall’associazione – e con i reparti ospedalieri, permettendo al malato di restare in famiglia e di godere così di una migliore qualità della vita. Collabora con medici specialisti in oncologia, cardiologia, angiologia ed altre branche, i quali offrono la loro consulenza al paziente. L’Att propone al malato ed ai suoi familiari un servizio di consulenza psicologica e fornisce, infine, sempre gratuitamente ed a domicilio, farmaci e presidi sanitari, quali lettini ospedalieri, sedie a rotelle, materassini antidecubito ed aste per flebo. Le spese mensili per una simile attività sono molto onerose (circa 100 mila euro al mese) e per sostenerle l’Att si avvale unicamente delle donazioni di privati e dei fondi raccolti durante manifestazioni e campagne promozionali». Le richieste all’associazione – che quest’anno festeggia i dieci anni di attività – sono in crescita: 871 solo nel 2009, con circa 5000 pazienti curati dal 1999 ad oggi.

Altra associazione che svolge il suo intervento domiciliare nel territorio fiorentino è la «Pallium» di Firenze. I «servizi alle famiglie» sono una specificità di questa associazione in quanto nascono dall’evidenza, vissuta quotidianamente dall’équipe di assistenza e dai volontari, di quanto sia necessario integrare ogni intervento sanitario domiciliare con un intervento di sostegno sociale. «Ogni famiglia che decide di assistere a casa un proprio congiunto malato gravemente – spiegano i responsabili – ha bisogno di questo aiuto. È necessario che si senta supportata in tutto ciò che appare collaterale all’assistenza, ma che in realtà ne fa parte integrante. Spesso i nuclei familiari sono ristretti a un coniuge anziano che non può occuparsi anche delle pratiche burocratiche; a volte sull’economia di una famiglia può pesare il costo di un trasferimento per esami diagnostici o trattamenti specifici. Quasi sempre sono necessari al malato e alla famiglia supporti tecnici per migliorare la qualità dell’assistenza e quindi la qualità di vita del malato e dei suoi familiari. Questi servizi sono la risposta a bisogni che hanno in comune l’appartenenza sia al malato che al contorno familiare; possono essere svolti da volontari preparati che sotto la guida e la supervisione di un coordinatore aggiungono al servizio vero e proprio quell’appoggio solidale che li allontana dal concetto di prestazione per avvicinarli al concetto di aiuto; nascono da esigenze la cui evidenza scaturisce dalla vicinanza quotidiana col malato e con tutti i problemi legati alla malattia».