Vita Chiesa

Braz de Aviz: «Andare in missione per superare la crisi»

Quando era vescovo di Brasília, il cardinale João Braz de Aviz trascorreva la maggior parte del tempo visitando le oltre cento parrocchie di sua competenza: «Sono stato sempre in mezzo al popolo, fin dai tempi del seminario. Adesso trascorro le giornate con i religiosi: partecipo a ritiri, capitoli, ricorrenze, incontri di formazione. Ma il contatto con le persone mi manca tanto». Prefetto della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, il cardinale Braz de Aviz ha guidato la macchina organizzativa dell’Anno della vita consacrata.

Eminenza, lei è un sacerdote diocesano che ha la responsabilità su migliaia di religiosi…

«Quando sono stato nominato da Benedetto XVI, pensavo fosse un compito impossibile. A Roma, però, non sono venuto per insegnare ma per imparare. Mi sono immerso nel lavoro della Congregazione, ho ascoltato e collaborato con tutti alla soluzione dei problemi. Fondamentale è il dialogo costante con il segretario».

Si è concluso l’Anno della vita consacrata, il primo nella storia millenaria della Chiesa. È soddisfatto?

«Sono grato a Dio, che continua a chiamare alla consacrazione, e a Papa Francesco, che in questo periodo ci ha accompagnati da vicino e ci ha spronati a guardare il futuro consapevoli dei cambiamenti da attuare. In Europa e nei Paesi più ricchi, si andava diffondendo la convinzione che i carismi storici fossero ormai giunti al termine. Nelle università, soprattutto a Roma, la parola d’ordine era «imparare l’arte di morire». È vero: tanti monasteri chiudono, molti Ordini devono condividere il carisma, la crisi delle vocazioni insiste, l’invecchiamento dei religiosi è reale. Eppure, la percezione di essere al finale di una storia è mutata. Adesso c’è speranza, e questo è il frutto più bello dell’Anno. Non dobbiamo restare ancorati alle posizioni già conquistate o smarrire la strada davanti alle difficoltà enormi, che pure troviamo in alcune circostanze».

È il caso dei Francescani dell’Immacolata? Molte persone sono turbate dalle notizie relative a patti vergati con il sangue, marchiature a fuoco…

«Stiamo lavorando con tenacia, perché i disguidi sono seri. Il terribile voto nel sangue è stato sciolto da Papa Francesco. Stefano Manelli è stato allontanato. La questione economica è in mano alla magistratura italiana. La formazione è stata affidata alle Università Pontificie e ai centri riconosciuti. Ci sono tre commissari che stanno guidando l’Istituto in un percorso di normalizzazione. Ciò avverrà soltanto se ci sarà un cambiamento: non tutti, però, sono d’accordo. Abbiamo fiducia che qualcosa si muova. Quel che è sicuro, è che Stefano Manelli non potrà più restare».

Come manterrete vivo lo spirito di quest’Anno?

«Non abbiamo tenuto il conto esatto, ma con il segretario abbiamo viaggiato molto e visitato almeno 30mila consacrati nel mondo. Siamo andati non tanto per verificare la condizione di vita, quanto per condividere il cammino e portare la parola del Papa. Tutto ciò ha prodotto una forte intesa. Dobbiamo continuare a tenere vivo il rapporto e ad andare verso i consacrati, dovunque essi siano».

La vita consacrata sta migrando dall’Europa all’Asia?

«In Corea ci sono 100mila battezzati all’anno. Dio è sempre nuovo, dal deserto crea un giardino. La dimensione contemplativa della vita è tipica dell’Asia. Il secolarismo e lo svuotamento religioso occidentale non sono ancora arrivati. Una certa forma di relativismo e di capitalismo sta entrando, ma l’esperienza spirituale è primaria. Anche la Cina si sta aprendo tantissimo, e così l’India. A Taiwan, ad esempio, le quattro grandi università sono in mano ai cattolici: il governo è favorevole perché i cattolici trasmettono valori che avvertono come favorevoli per la cultura e non mirano alla conversione diretta. È una evangelizzazione di testimonianza e di presenza».

Per rivitalizzarsi, la vita consacrata ha bisogno di andare in missione?

«È quello che ho scritto di recente al Papa, di ritorno da un viaggio in Mozambico. Ero a mille chilometri da Maputo, in una missione attiva da 60 anni. Ho visto la bellissima presenza di consacrati appartenenti a quattro carismi, che insieme lavorano con i giovani, i bambini, i malati, i tossicodipendenti. In una società poverissima dove è ancora consentita la vendita di donne e bambini, il Vangelo è luce. Se Dio chiama le persone in questi luoghi, allora i consacrati devono essere coerenti nell’annuncio e nella vita. Ho compreso quanto dobbiamo uscire per le missioni. Avremmo superato tante crisi interne ai nostri Istituti, se fossimo andati in missione. Lo abbiamo fatto, ma non a sufficienza».

Le nuove forme di vita consacrata, che hanno iniziato a svilupparsi dopo il Concilio, possono essere una risposta alla crisi vocazionale?

«Dio continua a chiamare e non sappiamo cosa lo Spirito stia creando. Quello che unisce queste nuove forme è il carisma. Spesso si tratta di Istituti che accolgono tutti gli stati di vita: laici e chierici, donne e uomini, sposati e celibi. E questa è una novità. Antiche Congregazioni stanno scoprendo di non aver lavorato abbastanza con i laici, come avrebbe voluto il fondatore. Tanti si stanno “salvando” grazie ai laici. Queste nuove realtà, però, esigono dei passi in avanti: ad esempio, una maggiore maturità nel rapporto tra uomo e donna o un diverso esercizio dell’autorità».

È in corso la riscrittura del documento «Mutuae relationes», sul rapporto fra religiosi e vescovi. Quali novità attendersi?

«La revisione del documento segue due principi: la spiritualità di comunione e la dimensione coessenziale tra gerarchia e carismi. È la lezione di san Giovanni Paolo II. Lo Spirito non chiede al vescovo il permesso di suscitare vocazioni attorno a un carisma. Naturalmente arriva il momento in cui il fondatore deve sottomettersi con amore filiale al vescovo, perché abbia la certezza di operare per Dio. A volte questo percorso avviene anche con dolore, ma è l’unica strada percorribile. Anche il Papa preferisce una Chiesa accidentata a una Chiesa immobile».