Vita Chiesa

Dom Bernardo Gianni: «A noi è chiesta esemplarità»

La notte di Natale del 1992 ha cambiato per sempre la vita di dom Bernardo Gianni: «La voce del Signore ha avuto i tratti forti e intensi di una chiamata persuasiva. Venivo da anni durante i quali ero stato lontano dalla fede. Ma quella notte avvertii il desiderio di farmi monaco per dedicare tutta la vita alla ricerca e all’incontro con Dio». Nato a Prato nel 1968, dom Gianni ha ricevuto poco più di un mese fa dal cardinale Giuseppe Betori la benedizione abbaziale, iniziando così ufficialmente il servizio a vita di superiore dell’abbazia di San Miniato al Monte.

La vocazione è stata l’apice di un percorso di avvicinamento al Signore?

«No, tranne alcune premesse legate soprattutto al mondo della disabilità che frequentavo. Non c’è stata, però, una gradualità. Sono stato catapultato nel monastero a ventiquattro anni appena compiuti».

Perché monaco?

«La chiesa in cui tutto questo è accaduto era il monastero di Santa Maria a Rosano nei pressi di Firenze, assai caro a Benedetto XVI. La vocazione è nata attraverso la celebrazione liturgica. Un’esperienza di preghiera intensa sperimentata nel contesto del mistero che il monastero evoca. Mi sono sentito profondamente parte di quella realtà».

Chi è il consacrato?

«È una persona che tenta di vivere con serietà il Vangelo, attraverso una dedizione a Cristo totale. Questa consapevolezza deve qualificare l’intera vita. Naturalmente ognuno porta con sé le proprie fragilità e debolezze, con le quali ci si deve inevitabilmente confrontare per verificare quanto ancora dobbiamo crescere. La vita consacrata, però, è una situazione privilegiata, perché il contatto con il Signore è quotidiano».

Ai consacrati è chiesta la testimonianza?

«Il carattere della nostra vita è l’esemplarità, pur tra tante povertà. Il monachesimo, in particolare, è nato in un periodo storico preciso, nel momento in cui terminava il martirio e dunque era più necessaria una testimonianza che non fosse di accomodamento».

Quando finisce la persecuzione, la tentazione è vivere il Vangelo annacquato.

Eppure non mancano gli scandali anche tra i consacrati…

«Dobbiamo vincere la tentazione di dare giudizi e, con l’umiltà della preghiera, chiedere al Signore di preservarci. Non è detto, infatti, che il nostro cuore sia completamente libero da simili idoli, che si accendono ogni giorno: ricchezza, genitalità, perversioni da ogni punto di vista. La preghiera e la vita di comunità aiutano a riconoscere queste luci e a diffidare, evitando l’errore di prospettiva di fidarci di bagliori fittizi che ci appaiono affidabili. Bisogna aggredire senza riserve il peccato, per dare un’opportunità al peccatore. A noi è chiesta un’esemplarità che non possiamo pretendere da un normale credente, piaccia o non piaccia. Occorre la limpidezza e la forza del giudizio quando vediamo situazioni del genere».

I consigli evangelici aiutano in questo senso?

«Le nostre resistenze al Vangelo toccano nodi costitutivi dell’umano: l’accaparrarsi le cose, la cosificazione degli affetti, l’autoreferenzialità. I voti tentano di intercettare questi atteggiamenti e trasfigurarli, più che correggerli».

È spaventato dalla crisi delle vocazioni?

«A San Miniato al Monte abbiamo la grazia di avere ben sette giovani in cammino. Più in generale, però, si tratta di un problema serio e reale che si può ricondurre da un lato ai condizionamenti sociali e culturali, dall’altro alla nostra incapacità di saper raccontare in modo avvincente il Vangelo ai giovani. Se la nostra deve essere una testimonianza di speranza, tuttavia, ciò deve emergere anche quando le dimensioni si assottigliano. È il paradosso della testimonianza: non tutto è giocato sull’efficienza e sull’apporto dei numeri, perché quando una comunità si mette in discussione e prova a convertirsi il Signore può anche chiedere il mistero della sterilità. Dobbiamo accoglierlo come un segno».

L’8 dicembre si è aperto il Giubileo straordinario della misericordia. Quale può essere il contributo dei religiosi?

«Più che parlare di misericordia, dobbiamo viverla nei fatti. Mi auguro che ci siano sempre più comunità in cui ci si ama e si sperimenta la misericordia in termini di ascolto, pazienza e mitezza».