Vita Chiesa

Faggioli: per Francesco il Concilio è un radicale e coraggioso aggiornamento

L’8 dicembre 1965, dopo quattro sessioni di lavoro, viene chiuso il Concilio Ecumenico Vaticano II. L’importante assise si svolge, dal 1962 al 1965, sotto i pontificati di Giovanni XXIII e Paolo VI. Vengono promulgate quattro Costituzioni, tre Dichiarazioni e nove Decreti. Il Vaticano II ha segnato una svolta importante nella storia della Chiesa. Ma, dopo 50 anni, a che punto è la sua recezione nel mondo? Lo abbiamo chiesto a Massimo Faggioli, docente di storia del cristianesimo e direttore dell’Istituto per il cattolicesimo e la cittadinanza alla University of St. Thomas a Minneapolis / St. Paul (Usa). Autore di numerosi studi sul Concilio, lo storico – dagli Stati Uniti, in cui vive e insegna – ci offre una lettura sul dibattito in corso e sulle prospettive aperte da Papa Francesco.

Professore, cinquant’anni sono un tempo sufficiente per una valutazione serena e coerente del Vaticano II?

«Sono certamente un traguardo importante, ma per alcune cose il Concilio di Trento impiegò un secolo a essere applicato. Per il Vaticano II è ancora più complesso, in quanto non si tratta solo di applicarlo dall’alto, ma di una «recezione» dal basso in una Chiesa cattolica che ora è veramente globale. Non c’è dubbio che il Vaticano II ha cambiato, in questi 50 anni, il nostro modo di fare teologia. Ora, specialmente grazie a Papa Francesco, si è passati a una recezione del Concilio da parte dell’istituzione-Chiesa, a partire dal papato stesso».

Sin dall’apertura nel 1962, il ruolo del Concilio è stato oggetto di un confronto che ha attraversato varie fasi. Ci aiuta a fare sintesi e a ricostruire le varie interpretazioni?

«Ci sono varie interpretazioni del Concilio, ma è importante tenere presente che tutto il cattolicesimo è conciliare, eccetto quelle frange scismatiche che hanno seguito Lefebvre nella Società di San Pio X – ma è una scheggia infinitesimale a confronto del cattolicesimo globale. Tra la fine del Concilio nel 1965 e metà anni Settanta c’è la fase di commento e di applicazione dall’alto del Concilio. Segue il pontificato di Giovanni Paolo II che rappresenta un passo avanti per alcune questioni (ecumenismo e dialogo interreligioso), ma un passo indietro per le dinamiche interne alla Chiesa. Il pontificato di Wojtyla si caratterizza anche per il Sinodo del 1985 sull’interpretazione del Concilio. Con la morte di Giovanni Paolo II si ha anche la fine di un pontificato che aveva sempre difeso la legittimità del Concilio e di una sua interpretazione accrescitiva. Con Benedetto XVI si ha un atteggiamento in parte diverso, di differenziazione e giudizio teologico tra diverse ermeneutiche. E venendo questo da parte di un Papa teologo, l’effetto è stato di polarizzare la Chiesa attorno al ruolo del Vaticano II».

Al riguardo come non ricordare il discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana del 22 dicembre 2005 sulle due ermeneutiche: «Ermeneutica della continuità e della riforma» opposta all’«ermeneutica della discontinuità e della rottura». Dove si colloca il dibattito attuale tenendo conto anche dell’impulso di Papa Francesco, primo Papa che non ha partecipato al Concilio?

«“Continuità vs. discontinuità” è uno dei mantra che è stato usato come un manganello, specialmente da parte di chi non aveva letto o capito quel discorso di Benedetto XVI che è un discorso che richiede un ottimo livello di conoscenza del dibattito e delle fonti. Francesco ha portato la questione Vaticano II dal livello del dibattito sulle ermeneutiche al livello della necessità di applicare il Concilio. Da un lato, Francesco cita il Vaticano II in modo cauto e attento, ma lo cita sempre quando si tratta di documenti e momenti chiave del pontificato. Dall’altro lato, il discorso delle due ermeneutiche non si applica a Francesco, perché per Francesco, come per Giovanni XXIII, il Vaticano II non è tanto «riforma» quanto un più radicale e coraggioso “aggiornamento”».

A che punto è la recezione del Concilio nel cattolicesimo globale?

«La Chiesa di oggi è sicuramente conciliare nel senso che non ci sono alternative alle grandi intuizioni teologiche del Concilio (ecclesiologia, teologia morale, teologia biblica, etc.). Ma ci sono nuove questioni che richiedono non solo una piena applicazione del Concilio, ma anche un dibattito nuovo e soluzioni nuove perché il Concilio 50 anni fa non poté dibatterle. Sono le sfide della biopolitica, ma anche le sfide di un cattolicesimo che non è più al sicuro della cultura europea figlia del Medioevo e dell’Umanesimo. Al Sinodo dei vescovi, convocato da Papa Francesco, si è visto quanto complesso sia gestire un cattolicesimo universale in cui vi sono retroterra culturali molto diversi. Il Concilio Vaticano II non dà tutte le risposte, ma certamente non è pensabile trovarle tornando indietro al periodo pre-conciliare».

Negli anni si è spesso parlato di un Vaticano III. Cosa ne pensa, tenendo conto anche del percorso sinodale voluto da Papa Francesco?

«La questione del “quando” un Vaticano III è sicuramente aperta, ma è aperta specialmente la questione del “come”. Ci sono oltre cinquemila vescovi nella Chiesa oggi e non è pensabile un Vaticano III organizzato come il Vaticano II. È pensabile invece il ritorno ad un livello conciliare continentale e regionale, come in tempi antichi: ci vuole coraggio e creatività per il futuro istituzionale del cattolicesimo. La Chiesa cattolica non è mai stata tanto grande e diffusa in tutto il mondo».

Quanto la Chiesa di Francesco vive dello spirito conciliare?

«Francesco ha recepito il Vaticano II pienamente, in fedeltà ma anche grande libertà, sia da prete che da vescovo e da Papa. Non si trova mai in Francesco la paura dello “spirito del Vaticano II” né la nostalgia dell’epoca pre-conciliare. Cosa diversa è l’atteggiamento con cui molti vescovi vedono ancora il Vaticano II (specialmente qui negli Stati Uniti d’America): paura e mancanza di fiducia nell’idea stessa di cambiamento di quello che si può e si deve cambiare. Francesco è sicuramente più conciliare della maggior parte dei suoi confratelli vescovi. È una delle sfide del pontificato».

Siamo nell’Anno Santo della misericordia… Tornano alla mente le parole di Giovanni XXIII all’apertura del Concilio: la Chiesa «preferisce usare la medicina della misericordia«…

«Infatti, e non è solo questione di date (conclusione del Concilio: 8 dicembre 1965 – apertura del Giubileo: 8 dicembre 2015). Non a caso quel discorso di Giovanni XXIII dell’11 ottobre 1962 occupa un ruolo centrale nel documento di Papa Francesco che convoca il Giubileo. Il pontificato di Francesco traccia chiaramente un arco con Giovanni XXIII e rappresenta una conferma e una ripresa del cambiamento di paradigma inaugurato da Giovanni XXIII e dal Vaticano II».