Vita Chiesa

Giornata sacerdotale, riflessioni di un monaco

«Il presbitero come colui che «sale sul monte» insieme a Gesù; che viene scelto da Gesù, e che risponde con disponibilità totale. Sono alcuni degli spunti della relazione che padre Innocenzo Gargano ha tenuto ai preti toscani lo scorso 17 maggio, durante la giornata sacerdotale regionale che si è svolta a Camaldoli, nel millenario dell’eremo. Ecco il testo, dal titolo «La spiritualità sacerdotale. Riflessioni di un monaco».

Millennio della Fondazione del Sacro Eremo di Camaldoli LA SPIRITUALITA’ SACERDOTALE:RIFLESSIONI DI UN MONACOCamaldoli 17 maggio 2012 Una proposta di lectio divinasuAt 6,2“Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense”.eMc 3,13-15 “Salì poi sul monte chiamò a sé quelli che egli volle  ed essi andarono da lui.Ne costituì DodiciChe stessero con luie anche per mandarli a predicaree perché  avessero il poteredi scacciare i demoni”. Penso che si possano o si debbano considerare come punto determinante di partenza della nostra riflessione proprio questi due passi fondamentali del Nuovo Testamento che stanno all’origine di ciò che noi chiamiamo abitualmente oggi vocazione sacerdotale.

Si tratta, nel primo testo, del famoso passo degli Atti degli Apostoli là dove i Dodici (hoi dōdeka), messi di fronte al rischio di un disordine ingiustificato, che si sta creando nella prima comunità cristiana di Gerusalemme nella “distribuzione quotidiana” (en tē-i diakonia-i tē-i kathēmerinē-i), decidono unanimemente: “Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense” (At 6,2).

Il riferimento ai Dodici, voluto espressamente dall’autore degli Atti, rimanda spontaneamente alla loro elezione, voluta da Gesù stesso, che la tradizione più antica, registrata dall’evangelista Marco, descriveva con queste espressioni precise: “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui  e anche per inviarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,13-15).

Ciascun verbo utilizzato da Marco in questo brevissimo brano e perfino le preposizioni che lo accompagnano, possono aiutare a compiere un’esegesi appropriata della decisione presa dai Dodici e registrata nel libro degli Atti. Anche se è del tutto scontato che la sensibilità del monaco si fermi soprattutto su alcuni di essi.

Intanto li elenchiamo brevemente:

1.      “Salì sul monte”;

2.      “chiamò a sé quelli che egli volle”;

3.      “andarono da lui”;

4.      “ne costituì dodici”;

5.      “che stessero con lui”

6.      “e anche per inviarli”;

7.      “a predicare”;

8.      “e a padroneggiare sui demoni”.

Si tratta di otto affermazioni che delineano l’insieme di un contenuto su cui è possibile fondare una vera e propria «spiritualità sacerdotale».

“Salì sul monte”

Il presbitero, ci viene suggerito da Marco, è qualcuno che accompagna Gesù che sale sul monte. Ora, noi sappiamo molto bene che il riferimento al monte, o alla montagna, richiama, oltre all’implicito riferimento a Mosé ed Elia, non soltanto silenzio e solitudine, con la distanza che Gesù cerca di porre fra sé stesso e il clamore della folla, ma anche lo spazio cercato insistentemente per il suo dialogo col Padre. E che l’elezione dei Dodici sia stato frutto di questo particolarissimo dialogo lo rivela chiaramente l’evangelista Luca che scrive: “In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli” (Lc 6,12-13).

Ciò che intendiamo rilevare con questo riferimento, a proposito dell’elezione dei Dodici, è la esplicita volontà degli evangelisti di porre l’elezione dei Dodici in strettissima connessione con un progetto preciso che il Figlio ha condiviso col Padre. L’elezione cioè appartiene in tutto e per tutto a quell’oikonomìa ad extra che manifesta, secondo l’interpretazione di un grande teologo contemporaneo, l’oikonomìa ad intra che costituisce da sempre la condivisione dialogale del Padre con il Figlio nello Spirito Santo.

&Credo che per un presbitero possa essere molto importante ritrovarsi in questo ineffabile abbraccio trinitario. La chiamata non viene dal basso, ma dall’alto, quale che sia stato l’itinerario personale di ciascuno di coloro che sono stati chiamati.

D’altra parte, non possiamo fare a meno di notare anche la presenza, fra gli eletti, di colui che, come ricorda anche Luca, “fu il traditore” (Lc 6,16). Quest’ultima ammissione, presente in tutti gli evangelisti, non permette a nessuno di sentirsi al coperto di fronte all’eventualità di ritrovarsi sì nel numero dodici, ma con la possibilità realistica, purtroppo, di finire in compagnia di chi “ha abbandonato per andarsene al posto più appropriato alla sua identità” (At 1,25).

“Chiamò a sé quelli che egli volle”

Anche in questo caso siamo di fronte ad una scelta che viene fatta generosamente, e in modo del tutto gratuito, direttamente dal Signore. Le analogie bibliche sarebbero tantissime, ma possiamo riferirci a tutto ciò che siamo abituati a chiamare historia salutis, a partire dalla creazione del mondo, giù giù fino ad Adamo, Abele, Noé, Henoc, Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, Aronne, Davide e, soprattutto Maria, la kecharitōmenē.

I personaggi appena elencati evocano eventi decisivi per la storia di Israele e del mondo intero, che potremmo vedere accomunati nella straordinaria beatitudine riconosciuta da Elisabetta a Maria: “Beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (Lc 1,45).

Né andrebbe trascurata la presenza, nel testo di Luca, di un hoti che permette di indagare più a fondo nel processo vocazionale di ciascun presbitero scoprendovi, probabilmente con stupore, la possibilità di ritrovarsi in compagnia di Maria nella doppia accezione, dichiarativa o causativa, voluta forse dallo stesso evangelista per indicare la misteriosità dell’adesione al progetto di Dio che Maria aveva sintetizzata tutta nel famoso «Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum» (Lc 1,38).

“Andarono da lui”

Questa espressione sembra voler evidenziare l’immediatezza della risposta data da ciascuno degli Apostoli, come suggeriscono alcuni racconti paralleli che descrivono vocazioni di singoli.

Si pensi, per esempio, a ciò che racconta Marco a proposito dei primi quattro discepoli: “Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, seguirono lui” (Mc 1,20); o, in modo ancora più plateale, a proposito di Levi: “Nel passare vide Levi, il figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Segui me». Egli, alzatosi, seguì lui” (Mc 2,14 = Mt 9,9).

Luca lascia intuire la stessa immediatezza nella descrizione della chiamata dei primi quattro discepoli seguita alla pesca miracolosa: “Tirate le barche a terra, lasciarono tutto e seguirono lui” (Lc 5,11).

Ma è l’evangelista Matteo che sottolinea, in modo più evidente forse degli altri, l’immediatezza, adoperando l’avverbio «subito» (eutheōs) sia a proposito di Pietro e Andrea: “E disse loro. Seguite me, vi farò pescatori di uomini. Ed essi subito, lasciate le reti, seguirono lui” (Mt 4,19); sia a proposito di Giacomo e Giovanni: “e li chiamò. Ed essi subito, lasciata la barca e il padre, seguirono lui” (Mt 4,22).

La disponibilità sembra dunque immediata e totale. E’ una caratteristica che ha impressionato le prime comunità cristiane che, perciò, non hanno potuto fare a meno di registrarla? Si tratta comunque di una nota da non trascurare. Le scelte vocazionali sono spesso accostate al «fulmine a ciel sereno» dal quale vengono spesso colpiti – si dice – gli innamorati a prima vista, quando hanno la sensazione di aver incontrato finalmente la persona giusta con cui condividere «senza se e senza ma» l’intera vita.

“Ne costituì dodici che stessero con lui”

Dopo aver descritto la reazione dei dodici, l’evangelista ritorna di nuovo a sottolineare che il protagonista di tutto è Gesù, anzitutto con due espressioni che evidenziano sia l’atto costitutivo propriamente detto – e si tratta di una investitura particolare che lascia intravedere una sorta di consolidamento dei dodici intorno a Gesù  fino a farne una sorta di tutt’uno con lui – sia che questo stesso consolidamento su di lui e intorno a lui, è voluto espressamente da lui come prima manifestazione della sua elezione: “perché (hina) stessero con lui”.

La preposizione finale greca (hina) indica lo scopo inteso dal protagonista. Si potrebbe quasi concludere che l’elezione dei dodici abbia come primo obiettivo, in Gesù, quello di averli accanto come persone chiamate a fruire della sua stessa intimità come lui fruisce della loro.

I testi di riferimento potrebbero essere rintracciati soprattutto nella narrazione della notte drammatica del Getsemani quando Gesù scopre senza pudori la propria debolezza davanti ai dodici e chiede espressamente: “Sedetevi qui, mentre io prego” (Mc 14,32), con quel che segue: ”li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi?» Non sei riuscito a vegliare un’ora sola” (Mc 14,37). Più chiaramente in Matteo: “Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me»” (Mt 26,38) che prosegue: ”e li trovò che dormivano. E disse a Pietro. «Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?»” (Mt 26,40).

Che l’intimità con Gesù faccia parte integrante dell’identità stessa dei discepoli, che sarebbero stati equiparati agli apostoli ( e che noi siamo portati a porre accanto ai presbiteri), lo evidenzia in modo eccezionale il vangelo di Giovanni che, per sottolineare tutto questo, è capace di costruire contesti dalle profondità mistiche davvero eccezionali.

Scrive, per esempio, a proposito della chiamata dei primi discepoli:

“Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «ecco l’agnello di Dio!» E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che tradotto, significa Maestro - dove dimori?. Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio (l’ora decima)” (Gv 1,35-39).

L’approfondimento della tematica del rimanere (menein) così determinante in tutto il vangelo di Giovanni, comporterebbe un approfondimento assai più esteso. Non si può fare a meno, in ogni caso, di ricordare i due capitoli, 10 (la similitudine del pastore) e 15 (la similitudine della vite), e i capitoli 14-17, che contengono il discorso (o i discorsi) d’addio, da sempre ritenuto come «Discorso sacerdotale» per eccellenza.

Questi ultimi testi, nei quali l’evangelista Giovanni prorompe in immagini ed espressioni di una intimità dichiarata, richiesta e promessa, che mettono perfino in imbarazzo, tanta è la commozione che producono anche nel più insensibile dei lettori, rivelano fino a che punto potrebbe arrivare un rapporto fra maestro e discepolo, quando si tratti di Gesù e di coloro che lui stesso si è scelti come «suoi».

Infatti arriva perfino a chiedere: “Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi” (Gv 17,11), adombrando per i suoi inviati (apostoli – presbiteri) la possibilità di una intimità paragonabile a quella ineffabile intimità che da sempre il Figlio vive nel suo rapportarsi col Padre.

Impressione che viene ulteriormente rafforzata da ciò che l’evangelista ripete appena qualche versetto dopo: “La gloria che tu hai dato a me, io l’ho data a loro, perché siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa. Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità” (Gv 17,22-23).

Con quanto segue: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo… E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro” (Gv 17, 24. 26).

Come monaco, perché questo taglio particolare ci siamo impegnati di dare alla mia comunicazione, penso di potermi fermare qui.

Ciò che avete sentito finora era un brevissimo saggio di come si possa fare lectio divina limitandosi ad una semplice e quasi elementare collatio di testi richiamati da una pagina biblica scelta a partire dalla prospettiva propria di un sacerdote cattolico.

E’ del tutto ovvio che, a questo punto, bisognerebbe che io mi sottraessi ritirandomi in punta di piedi per fare spazio a quella misteriosissima compunctio cordis che è la mèta stessa di una lectio divina.

Ciascuno potrebbe esprimere così, liberamente, la propria oratio nelle forme più appropriate alla reazione interiore. E questo confermerebbe che la Parola del Signore si è fatta strada nel cuore. Significherebbe infatti che la fessura provocata da questa vera e propria lotta corpo a corpo col testo, avrebbe costretto ques’ultimo a spremere in nostro favore quel succo misterioso trattenuto fra le sue fibre che Gregorio Magno avrebbe chiamato medulla, ceduto soltanto, appunto, dopo una durissima lotta.

E così l’incontro-scontro fra lettore e testo biblico si rivelerebbe chiaramente per ciò che veramente è: qualcosa di molto analogo alla misteriosissima lotta che il patriarca Giacobbe sostenne lungo tutta la notte al guado del torrente Iabbok.

La saga di Israele ricordava: “Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse:«lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto». Gli domandò:«Come ti chiami?» Rispose:«Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse” (Gen 32,23-30).

Forse è per questo che Gesù dichiarò, sconcertando tutto il suo uditorio: “Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono”? (Mt 11,12).

L’intuizione che vi ho appena comunicato mi viene da Clemente Alessandrino[1], maestro di Origéne, a sua volta maestro di tutti gli esegeti cristiani che si sono succeduti dal terzo secolo in poi nella Chiesa.

Non so se adesso mi concederete di dirvi anche qualche altra cosa su ciò che mi nasce in cuore, come monaco, quando penso alla spiritualità che dovrebbero esprimere i nostri presbiteri oggi nella Chiesa cattolica.

Se me lo permettete inizio subito con esporre alcune convinzioni che ho maturato in questi anni sul rapporto fra Parola di Dio e nutrimento spirituale, che potrebbero, o forse dovrebbero, caratterizzare la vita di un presbitero in questa nostra Chiesa post-Conciliare.

I rischi dei surrogati alla Parola biblica

Intere generazioni di presbiteri hanno cercato altrove, cioè in altre pratiche di pietà e devozioni personali o comunitarie, quell’esperienza di intimità col Signore che avevano a portata di mano nelle letture bibliche che accompagnavano ogni giorno la loro celebrazione dell’Eucaristia e la loro preghiera quotidiana, intessuta, nel breviario, di Salmi e di letture bibliche e patristiche[2].

Fortunatamente, la Chiesa non ha mai smesso di considerare la venerazione dei testi biblici come parte integrante della sua tradizione e fonte irrinunciabile delle sue leggi canoniche e del suo insegnamento, segno che essa ha ritenuto costantemente il libro delle Scritture, Antico e Nuovo Testamento, base indispensabile del contenuto della fede e scrigno in cui sono contenuti i suoi tesori più sacri.

E tuttavia, si deve con onestà ammettere che non sempre questo principio oggettivo è stato tradotto nella pratica di una direttiva precisa nell’educazione dei chierici, orientati al presbiterato e, di conseguenza, nella vita quotidiana dei presbiteri stessi.

La riscoperta della Bibbia come fonte di «spiritualità»

Si dovette attendere addirittura la metà del secolo XX per trovare in documenti ufficiali della Chiesa un testo come quello che fu divulgato il 13 maggio 1950 dalla Pontificia Commissione Biblica Sanctissimus Dominus sul De Sacra Scriptura recte docenda, perché venisse ricordato ai futuri presbiteri che non possono in alcun modo pretendere di esporre e illustrare rettamente e con frutto i sacri Libri “se essi medesimi negli anni dei loro studi in seminario non si sono imbevuti di un attivo e perenne amore alla sacra Scrittura (sacrae Scripturae actuosum ac perennem imbiberint amorem)”[3].

In quel testo si proseguiva: “Il professore di Sacra Scrittura, non contento di insegnare ai suoi alunni notizie di argomento biblico utili e necessarie, deve cogliere l’occasione per ammaestrarli bene su come, da una solida conoscenza della Scrittura, dalla lettura assidua (assidua lectione), dalla pia meditazione, si possano alimentare, consolidare e promuovere la santità della propria vita sacerdotale e rendere fecondo il ministero apostolico, massimamente della sacra predicazione e dell’istruzione catechetica”[4].

Quella stessa raccomandava poi di non limitarsi, nella spiegazione delle singole parti della Scrittura, “al criterio della pura erudizione, esponendo piuttosto le parti dell’uno e dell’altro Testamento in cui viene manifestata e definita la dottrina”, avvalorando il suo pensiero con una bellissima citazione di San Gregorio Magno che ricordava di evitare, nella meditazione biblica, di “rosicchiare la scorza senza raggiungerne il midollo: «ut ait Gregorius, corticem rodat, medullam autem non attingat»”[5].

Il documento raccomandava inoltre: “Abbia cura (l’insegnante) di spiegare bene anche il senso spirituale delle parole (bibliche)…ricordando che tanto più facilmente il professore comprenderà e fedelmente esporrà ai suoi alunni questo senso spirituale, chiarito con tanto amore dai Santi Padri e dai grandi interpreti, quanto maggiori saranno in lui la purezza del cuore (cordis puritate), l’elevatezza dello spirito, il rispetto e l’amore verso Dio che si rivela”[6].

L’insegnamento del Vaticano II

Nel testo appena citato del 1950 troviamo il nucleo originario di tutto ciò che si cominciava ormai a respirare qua e là nelle diverse realtà della Chiesa cattolica e che avrebbe trovato il suo culmine negli insegnamenti solenni della Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II, il quale al n. 8 della stessa Costituzione ricordava:

“La tradizione di origine apostolica progredisce (proficit) nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito santo: cresce (crescit) infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19.51), sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto il carisma sicuro della verità. La Chiesa cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità(Ecclesia scilicet, volventibus saeculis, ad plenitudinem divinae veritatis iugiter tendit), finché in essa vengano a compimento le parole di Dio (donec in ipsa consummentur verba Dei). Le asserzioni dei Santi Padri attestano la vivificante presenza di questa tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega (in praxim vitamque credentis et orantis Ecclesiae transfunduntur)…Così Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto (cum dilecti Filii sui Sponsa colloquitur) e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell’Evangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti in tutta la verità e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza”.

Anche solo fermandosi un attimo a considerare questo testo straordinario, ci si accorge che un presbitero ordinato dopo il Concilio Vaticano II ha a propria disposizione delle indicazioni di metodo pastorale e di cammino spirituale sensibilmente diverse da quelle possedute dai suoi confratelli educati e nutriti con i metodi precedenti.

E in ogni caso si constata che abitualmente si fa tesoro oggi – grazie a Dio – di questa nuova prospettiva nei contesti formativi dei candidati al sacerdozio cattolico; contesti dei quali ogni giorno di più osserviamo le ricadute positive sul piano della pastorale e della vita spirituale nella situazione dei presbiteri in tutto il mondo cattolico.

Da questa impostazione dovuta al Vaticano II è nato, fra le altre cose, anche un approccio diverso alla sacra Scrittura che ha permesso, intanto, di non ridurre più il testo biblico a puro magazzino apologetico da utilizzare a conferma dell’esposizione o per la difesa della fede e della morale cattolica.

I presbiteri hanno ripreso in mano la Bibbia riscoprendola, infatti, come vera e propria fonte primaria e archetipo di riferimento sia per il nutrimento spirituale dei singoli sia per il servizio omiletico, sia per individuare i criteri del discernimento necessario a giudicare evangelicamente la storia.

La lettura della Bibbia ha cominciato così ad essere considerata di nuovo come la strada più appropriata perché i presbiteri possano trovare una via d’uscita più sicura dal labirinto delle infinite scelte di vita imposte dalle relazioni umane in tutti i campi, sia per il proprio servizio pastorale sia per il proprio cammino spirituale.

La scoperta della Lectio Divina

La lettura della Bibbia si è progressivamente configurata, negli anni immediatamente successivi al Concilio Vaticano II, come pratica di lectio divina.

Ma di cosa in realtà di tratta?

In poche Parole, si potrebbe dire che la lectio divina è un esercizio conosciuto fin dall’antichità e praticato soprattutto dai monaci, teso a trasformare il credente in «Parola di Dio fatta carne», assumendo come modello di riferimento Maria di Nazaret, la madre di Gesù.

Il primo scrittore cristiano antico che propose nel concreto questo obiettivo ai cristiani sembra sia stato Origéne (m. 253), il quale sosteneva la possibilità, per ogni cristiano, di diventare a sua volta «Madre del Verbo di Dio», attraverso un processo di assimilazione della Parola, ottenuta grazie alla frequentazione dei pozzi inesauribili dell’acqua viva della Parola di Dio presente nelle Scritture ispirate.

Origéne  leggeva, nei verbi utilizzati dai Sinottici, e soprattutto dall’evangelista Luca, a proposito dell’atteggiamento vissuto da Maria di Nazaret nei confronti delle parole di Gesù o di quelle che si riferivano a lui, altrettante indicazioni di metodo per accostarsi in modo fruttuoso e vitale alla pagina biblica.

Per raggiungere un’analoga maternità relativa alla Parola di Dio Origéne, e dopo di lui altri Padri della Chiesa, indicarono delle vere e proprie tappe progressive di realizzazione di una maternità misteriosa che, dalla fase del concepimento, arrivavano al parto[7].

Il discepolo di Gesù veniva così posto in condizione di sentire come rivolta a sé stesso la risposta data da Gesù alla donna che, benedicendo Maria, “alzò la voce e gli disse: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!», ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano (akouontes) la parola di Dio e la osservano» (phylassontes)” (Lc 11,27), con tutto l’arricchimento che proveniva dai verbi «akouō, tereō, symballō, phylassō, poieō», utilizzati dai Sinottici nei testi paralleli (cfr. Lc 8,21; Mt 12,46-50; Mc 3,31-35), i quali erano facilmente interpretabili con riferimento al processo proprio della formazione di un bimbo nel grembo materno fino alla maturazione che si concludeva col parto.

La frequentazione del testo biblico veniva accostata così all’occasione opportuna da non perdere per arrivare a stipulare un vero e proprio fidanzamento tra il credente e la Parola contenuta nella Bibbia, con riferimento alle Matriarche del libro della Genesi[8] e alla samaritana incontrata da Gesù al pozzo di Sichem (Cfr. Gv 4,26), che frequentavano i pozzi per incontrare l’amore.

Una mistica «presbiterale»?

In linea con ciò che abbiamo appena appreso da Origéne e dagli antichi Padri della Chiesa, ci sembra di poter proporre una interpretazione, che potrebbe apparire vertiginosa ai nostri occhi, delle nozze mistiche celebrate (come lasciano intuire alcuni Padri della Chiesa, e soprattutto alcuni testi liturgici orientali) fra Gesù crocifisso, nuovo Adamo, e Maria, nuova Eva, adombrate nella misteriosissima scena raccontata dall’evangelista Giovanni che in 19,26-27 scrive:

“Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre:«Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé”.

L’indicazione implicita che comporta questo testo può essere che primo frutto delle nuove nozze, celebrate in questa nuova creazione, sia proprio il discepolo amato che accoglie Maria come parte integrante e inalienabile della propria identità di discepolo. Si noti, però, che, mentre la traduzione italiana dice: “E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé”; il testo greco ha: elaben autē eis ta idia, che significa propriamente: “la accolse fra quelle proprietà che lo identificavano come discepolo!”.

Accostando i testi appena riportati col metodo della Lectio Divina credo si possa concludere che essa indica in realtà nient’altro che l’identità stessa del discepolo. Si tratta dunque, se vogliamo riferirlo al presbitero, da analogare al «discepolo amato», di un modo di essere e di un modo di vivere appartenente all’identità stessa del sacerdote cattolico.

Le conseguenze per una «spiritualità presbiterale»

San Giovanni Crisostomo faceva notare che, a differenza di Mosé che scese dal monte Sinai con in mano le dieci parole di Dio incise su tavole di pietra, i discepoli, inviati da Gesù risorto nel mondo intero ad annunziare il vangelo, portavano semplicemente sé stessi, dal momento che, grazie al dono dello Spirito Santo, la frequentazione e l’intimità stabilita col Verbo di Dio fatto carne in Gesù di Nazareth, erano divenuti anch’essi presenza viva della stessa Parola di Dio nel mondo[9].

Nessun presbitero, però – e lo constatiamo tutti ogni giorno – può pretendere, nonostante il dono sacramentale, di possedere, per scienza infusa, la conoscenza della Parola di Dio, senza la frequentazione delle Scritture ispirate con cui può rivivere, in qualche modo, la familiarità stabilita con Gesù dai suoi diretti discepoli e dagli Apostoli. Tutti i presbiteri sanno infatti, per esperienza, di aver bisogno anch’essi, come ogni altro battezzato, della mediazione della Chiesa che, come amavano ripetere i Padri, «tenet et legit librum Scripturarum».

In ogni caso, questo libro, adesso, non soltanto è posto nelle loro mani, ma li spinge ogni giorno a trasformare in «quel» libro la loro stessa vita. Hanno però tutti i presbiteri la consapevolezza della dignità misteriosissima che comporta l’impegno ad essere loro stessi questo prezioso liber Scripturarummesso a disposizione della gente?

Le analogie dell’«ispirazione»

La convinzione di fede della Chiesa insegna che il libro della Bibbia non è un libro come tutti gli altri. Si tratta infatti di un libro definito «ispirato». La Chiesa esplicita in modo addirittura drammatico questa sua convinzione prescrivendo una cura particolarissima nel trattare con «questo» libro. E infatti prescrive di introdurlo solennemente nelle nostre assemblee liturgiche. In alcune occasioni, come per esempio nella consacrazione di un vescovo, «questo» libro viene posto con estrema solennità e tensione spirituale sul capo dell’ordinando a testimonianza che, da quel momento in poi, libro «ispirato» e presbitero «consacrato» vanno considerati come uno penetrato dall’altro e immedesimato con l’altro, nonostante la persistenza della taxis che suppone ciò che lo stesso Concilio Vaticano II ha tenuto a precisare quando ha scritto, a proposito del Magistero, che esso non è sopra, ma sotto la Parola di Dio.

Capire ulteriormente tutto questo sembra importante. Vediamo brevemente di accennare a qualche approfondimento.

Dire, a proposito della Bibbia, che si tratta di un libro «ispirato» significa, certo, che quando l’agiografo lo ha composto era sotto la garanzia dello Spirito Santo. Come quando qualcuno intende realizzare una costruzione e l’architetto, dopo averlo ascoltato, gli schizza su un foglio un modello di ciò che ha capito dalle parole del committente, completandolo con la sua intuizione creativa oppure presentandogli un modellino appropriato.

Da qui una prima conclusione: l’opera realizzata manifesterà in questo caso sia l’intenzione del committente (che nel caso nostro è lo Spirito), sia la capacità dell’esecutore (che nel nostro caso è l’autore umano).

Ma «ispirazione» può significare anche un’altra cosa. Pensiamo, per esempio, a un recipiente in cui venga versato un contenuto prezioso che lo nobilita e lo supera sul piano del valore. In questo caso può darsi anche che il contenitore sia composto con un materiale privo affatto di qualunque valore, e dunque molto scadente, e tuttavia il contenuto, che è la cosa che interessa di più, ha, al contrario, un valore assolutamente inestimabile.

Se teniamo conto di questo secondo esempio non è difficile dedurre che un libro scritto sotto «ispirazione» rimandi inevitabilmente al contenuto di pensiero o di creatività che attraverso il testo scritto ci raggiunge. Inoltre si potrà facilmente constatare che la Parola, e dunque il contenuto, che quello stesso testo scritto permette di udire attraverso la mediazione di un lettore, va decisamente oltre la pura e semplice materialità del contenitore che, però, proprio grazie alla materia umile della quale è composto, può facilmente essere trasportato da un luogo all’altro, superando i limiti del tempo e dello spazio, senza che il suo contenuto venga ad essere in qualunque modo corrotto o deturpato.

Possiamo così legittimamente concludere che un testo ritenuto «ispirato» non può ridursi ad essere soltanto ciò che l’artista umano ha realizzato fornendogli un contenitore più o meno appropriato. E questo neppure quando l’artista o architetto sia talmente geniale da interpretare alla perfezione, inevitabilmente umana, ciò che il committente, identificato con lo Spirito stesso di Dio gli ha richiesto di fare. E bisogna anche aggiungere che, trattandosi di un’energia spirituale e divina, non si può mai pensare che esista al mondo alcun contenitore che la possa imprigionare senza che essa spinga, in qualche modo dall’interno, per riversarsi irresistibilmente al di fuori del contenitore stesso.

Non succede forse altrettanto anche a proposito di un profumo intensissimo che permea le pareti stesse del suo contenitore più o meno perfettamente sigillato?

Le convinzioni dei monaci

I Padri della Chiesa, ma soprattutto i monaci, consideravano la Parola di Dio, contenuta nel testo scritto della Bibbia, come una realtà che non soltanto era presente nel testo, ma che dal testo anche emanava!

Se si accetta una proposta simile, si arriva a concludere che la Parola di Dio non è soltanto contenuta nelle Scritture, ma anche che dalle Scritture promana, ferma restando la necessità del contenitore, senza il cui servizio preziosissimo la Parola stessa verrebbe facilmente mistificata.

Da qui la legittimità di dedurre che lo Spirito, da noi confessato come realmente presente nel testo sacro, è simultaneamente sia lo Spirito del cosiddetto Gesù storico, nel quale noi riconosciamo la presenza della Parola di Dio fatta carne, sia lo Spirito di Gesù risorto che, a partire dall’evento pasquale, è stato donato ai discepoli per introdurli gradualmente in tutta la verità (cfr. Gv 16,13), fino alla fine dei tempi.

Era convinzione comune dei Padri della Chiesa che, lasciandosi educare dallo Spirito contenuto nelle Scritture, ricevute e trasmesse dalla Chiesa, si acquistano di fatto quegli occhi nuovi, quelle capacità uditive e visive, e perfino tattili, olfattive e gustative, nuove, che permettono di scoprire infallibilmente la presenza dello stesso Spirito nella storia e di individuarlo non soltanto nei provvidenziali segni dei tempi, ma anche, e soprattutto negli uomini di Dio, chiamati in latino viri Dei, i quali sono a tal punto trasformati dallo Spirito del Signore risorto da manifestarlo al mondo con la loro vita.

Fu la constatazione di questo processo di trasformazione dell’uomo di Dio o del vir Dei che convinse Gregorio Magno a coniare il bellissimo assioma: Viva lectio vita bonorum[10].

E fu per lo stesso motivo che si affermò, soprattutto in Oriente ma anche il Occidente, la convinzione assai presente nella pietà popolare che i santi ritenuti «divinizzati, trasfigurati in Dio (theioi)», come si amava dire nell’Oriente cristiano greco, emanavano il profumo della resurrezione anche dopo morte grazie al dono dell’incorruttibilità o aphtharsia.

Se il presbitero entra anche lui in questo processo operato dall’energia trasformativa della Parola di Dio, che agisce nella sua personale lectio divina, passa dall’obiettivo mirato (skopòs) all’obiettivo raggiunto (telos) e vede aprirsi davanti a sé la strada della realizzazione del secondo motivo voluto da Gesù nella chiamata dei Dodici sintetizzato nell’ultimo versetto del passo del vangelo di Marco con cui abbiamo aperto la nostra lectio che si esprime così: “e anche per inviarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni” (Mc 3,15).

Presupposti per una corretta lectio divina

Rapportarsi col testo biblico ritenuto per fede come «ispirato» comporta la necessità di non considerarlo soltanto come semplice oggetto di studio da analizzare con tutti gli strumenti scientifici, i più adeguati possibile, ma anche come interlocutore «vivo» del cammino di fede.

La Lectio Divina intende sottolineare, soprattutto, il secondo aspetto della tesi appena enunciata. Il che non significa in nessun caso sottovalutare l’importanza del primo approccio, perseguito con la massima serietà scientifica possibile. Tutt’altro! Significa, però, considerare «questo» libro come un ferro incandescente, che brucia le mani e mette in movimento il cuore di chiunque lo accosti lasciandoselo dispiegare dal Signore risorto (Cfr. Lc 24,32).

Le fasi della «lectio divina»

Il primo corollario di un simile approccio, che verrebbe richiesto al presbitero cattolico che accetta questa tesi, è quello di preferire «questo» libro ad ogni altro libro superando la tentazione o l’illusione di poter servire due padroni come avverte l’evangelista Matteo (6,24).

Decidere di fare una simile scelta significa forse dimenticare la storia e il cammino quotidiano degli uomini nostri compagni di viaggio?

Tutt’altro! In realtà, come lascia supporre la narrazione dei discepoli di Emmaus incontrati da Cristo risorto (cfr. Lc 24,13-35) è proprio la storia, la nostra storia, quella dei drammi e delle tragedie quotidiane che rischiano di indebolire la fede fino a rischiare l’incredulità, lo strumento con il quale si può rintracciare quella fessura apparentemente invisibile che permette di individuare quell’«oltre» dalla dizione letterale del testo (textus = tessuto) che apre all’incontro con la Parola che, dietro quell’intreccio, misteriosamente si nasconde.

Il monaco che frequenta quotidianamente le Scritture e le compulsa senza sosta, con pazienza e perseveranza, non è mosso dalla curiosità dello studioso, ma piuttosto dalla sua sete della Parola di Dio; e tuttavia è pienamente consapevole che senza quell’acqua necessaria che sgorga dal testo, da «quel» testo, non riuscirebbe mai a togliersi la sua sete di vita che lo ha condotto a compiere una scelta tanto radicale.

Forse sta soltanto in questo il messaggio che un monaco potrebbe lanciare all’amico presbitero con estrema umiltà, ma anche con la ferma consapevolezza che si tratti nientemeno che dell’unum necessarium dal quale tutto il resto riceve consistenza ed efficacia.

Entrando, perciò, davvero in punta di piedi nella vostra stanza personale, mi permetto di indicare alcune tappe comuni ad ogni lectio divina, non necessariamente monastica, che potrebbero essere utili a qualcuno che intenda intraprendere questo particolare itinerario spirituale:

a) il primato della fede.

Riconoscere che il libro biblico è diverso da ogni altro, significa che dietro, dentro e oltre il libro scritto dell’Antico e del Nuovo Testamento occorre riscoprire una presenza a suo modo «reale» del Signore Gesù, Figlio di Dio e Figlio di Maria, in analogia a tutto ciò che la pietà cattolica ha collegato con la presenza di Gesù-Eucaristia adorato nel Santissimo Sacramento dell’Altare.

Si potrebbe perfino suggerire ai principianti di trovare il modo di rispettare e venerare il libro biblico imitando appunto i monaci dell’antichità e dei tempi nostri che custodivano e custodiscono il codice biblico con venerazione analoga (dico analoga e non eguale) a quella che si riserva abitualmente in tutte le parrocchie cattoliche al Corpo Santo del Signore.

La Liturgia stessa della Chiesa tratta sempre con estremo rispetto il libro delle Scritture. Infatti lo introduce con la massima solennità nell’assemblea, lo incensa, lo bacia con affetto, e lo «ostende» alla venerazione dei fedeli come fa con il Corpo sacramentale del Signore.

Il presbitero potrebbe, per esempio, trovare il modo di porre in evidenza con accorgimenti appropriati nelle chiese, ma anche nella sua casa canonica, la particolarità di «quel» libro, e soltanto di quello, sottolineando che proprio a proposito del contenuto di «quel» libro è scritto: «lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Salmo 119, 105).

b)l’attenzione al testo

Nell’antichità cristiana, spesso il libro delle Scritture Sante veniva ricopiato in tutto o in parte, personalmente. I martiri lo portavano sul petto e lo custodivano con estrema attenzione, considerandolo il tesoro più prezioso ricevuto dalla comunità.

Un suggerimento potrebbe essere, a questo proposito, quello di proporre ai futuri presbiteri, o anche ai presbiteri stessi, di sottomettersi umilmente alla trascrizione precisa, fatta manu propria, del testo come avveniva, e qualche volta avviene ancora, nello scriptorium dei monasteri.

Non si tratta di un ritorno nostalgico ai metodi, ormai superati per sempre, del medioevo, ma piuttosto di un invito a raggiungere, con questa fatica (ponos), l’indispensabile stabilitas corporis, animae et mentis attraverso un allenamento continuo (askēsis), che, unico, permette di raggiungere l’obiettivo dell’attenzione (prosochē) unanimemente considerata, nell’antichità, condizione necessaria per ottenere il dono della preghiera (proseuchē).

c) la dimensione sacramentale

Scriveva San Girolamo: “La carne del Signore è vero cibo e il suo sangue vera bevanda: è questo il vero bene che ci è riservato nella vita presente: nutrirsi della sua carne e bere il suo sangue, non solo nell’Eucarestia, ma anche nella lettura della sacra Scrittura. E’ infatti vero cibo e vera bevanda la parola di Dio che si attinge alla conoscenza delle Scritture”[11].

Il pane, di cui parla Gesù nel capitolo 6 del Vangelo di Giovanni (Gv 6, 31-71), è nello stesso tempo la sua persona divina presente nella carne avuta da Maria, il dono del pane eucaristico, del quale Gesù dice: “ chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna” (Gv 6,54), ma è anche il dono dell’insegnamento di Lui, così come viene riconosciuto dagli Apostoli, che constatano: “Signore, da chi andremo? Tu solo hai Parole di vita eterna” (Gv 6,68).

Il presbitero è nella condizione ottimale per valorizzare la dimensione «sacramentale», inerente al libro delle Scritture ispirate. Tutto questo mi sembra determinante per elaborare oggi, nella nostra Chiesa postconciliare, una appropriata spiritualità presbiterale. Se non partissimo da qui sarebbe estremamente difficile far capire perché ci dovremmo impegnare in un cammino di lectio divina per crescere nella maturità della fede. E sarebbe difficile anche, o addirittura impossibile, accettare che la lectio divina non è una pratica di pietà fra tante altre; non è spiritualità monastica; non è un essere aggiornati perché ormai va di moda questo modo nuovo di pregare, ma è semplicemente impegno a nutrirsi quotidianamente col pane sostanzioso garantito dal Signore per la vita della sua Chiesa.

d) la fiducia nella Parola

O la Chiesa è fondata sulla roccia della Parola o, altrimenti, potremo aspettarci da un momento all’altro che la furia dei tempi, come un uragano, spazzi via la nostra casa fino dalle fondamenta. (Cfr. Mt 7,24-27).

Ricordiamo la parabola di Marco: “Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come. Egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».” (Mc 4,26-29).

Frutto di quest’azione nascosta della “Parola seminata in noi” sarà il raggiungimento, pian piano, di una vera e propria identificazione dei nostri pensieri con i pensieri di Dio, delle nostre fantasie con le immagini scritturistiche. E succederà, con estrema naturalezza, che la Parola di Dio resti con noi durante le molteplici occupazioni quotidiane, di notte e di giorno, crescendo dentro di noi, e manifestandosi al di fuori, nelle nostre scelte e nelle nostre proposte. “Come? Egli stesso non lo sa”(Mc 4,27).

I Padri della Chiesa, lasciandosi influenzare da certe intuizioni mistiche già presenti in Israele, proponevano volentieri, in questo contesto, immagini sponsali estremamente ardite che si possono leggere nelle opere dei grandi commentatori antichi della Bibbia fino a raggiungere livelli vertiginosi in personaggi a noi familiari, come Bernardo di Chiaravalle, Giovanni della Croce o Teresa d’Avila.

Ma il denominatore comune a tutti questi santi è stato sempre la frequentazione del testo biblico come se si trattasse della frequentazione della casa dell’amata da parte dell’amante innamorato.

e) la Comunione con la Chiesa.

Il libro della Bibbia non lo si va a comprare nelle librerie, non lo si va a prendere dallo scaffale di una biblioteca, ma lo si riceve. E’ determinante riceverlo, e riceverlo dalle mani della Chiesa, perché questo libro deve trasmetterci tutto l’amore della Chiesa, tutta la responsabilità della Chiesa, tutta la fede della Chiesa, tutta l’ermeneutica della Chiesa.

Soltanto la Chiesa fondata sugli Apostoli possiede e legge autenticamente il testo delle Scritture[12]. Al di fuori di questa accoglienza del libro dalle mani della Chiesa, è facile infatti correre il rischio di appropriarcene come cosa nostra e di considerarlo un testo come tutti gli altri. La mediazione di persone vive, che trasmettono la Parola viva di Dio, da bocca a bocca, è talmente necessaria che i Padri cristiani antichi non si vergognavano di descrivere tutto questo utilizzando immagini perfino sconcertanti.

Riferendosi, per esempio, alle parole del Cantico dei Cantici: «Mi baci con i baci della sua bocca» (Ct 1,2), Origéne commentava:

“Si parla al plurale di baci proprio perché noi comprendiamo che l’illuminazione di ogni concetto oscuro è un bacio che il Verbo di Dio dà all’anima perfetta. Forse in questo senso diceva la mente profetica e perfetta: «Ho aperto la mia bocca e ho attirato lo spirito». Invece per bocca dello sposo intendiamo la facoltà con la quale egli illumina la mente e quasi avendole rivolto parole di amore, se essa merita di accogliere la presenza di facoltà così grande, le rivela ogni cosa sconosciuta e oscura: questo è il più vero e proprio e santo bacio che lo sposo, il Verbo di Dio, rivolge alla sposa, l’anima pura e perfetta. Immagine di questo è il bacio che nella chiesa ci scambiamo gli uni con gli altri, allorché celebriamo i misteri”[13].

Una comunione che Origéne si permette di descrivere con parole così incandescenti non può ridursi ovviamente alla semplice e fredda ripetizione di formule di fede concentrate in un testo catechistico quale che sia. Essa ha bisogno, infatti, di un presbitero che vive ciò che celebra. La Chiesa glielo ricorda con la massima solennità, all’atto stesso della sua consacrazione sacerdotale. E i monaci potrebbero umilmente ricordare, col loro semplice «esserci» nella Chiesa, che si è autentica comunità «apostolica» soprattutto quando si vive concretamente more apostolico e si resta caparbiamente uniti a coloro che, nella Chiesa, possiedono il «charisma veritatis certum» (Ireneo di Lione).

f) fides quae creditur et fides qua creditur

La comunione intesa dalla Chiesa, se da una parte richiama la necessità di camminare nella fede professata dagli Apostoli, a livello formale e verbale; dall’altra richiama anche la necessità di vivere quella stessa comunione di cui vivevano gli Apostoli.

I risvolti pratici di questa convinzione sono estremamente importanti anche nell’esperienza della lectio divina. Essi riguardano, infatti, la correttezza o meno di una interpretazione anche quando si tratta di semplice «lettura spirituale» della bibbia.

Per i Padri della Chiesa era dato per scontato che l’interpretazione di un eretico o di uno scismatico dovesse essere considerata necessariamente falsa. Nel primo caso, perché non c’era una corretta fides quae creditur e nel secondo caso, per la mancanza della fides qua creditur.

Si aveva, dunque, a portata di mano un criterio di discernimento che era, nello stesso tempo, sicuro e semplicissimo, ma con qualche inconveniente, perché il criterio veniva applicato anche in senso inverso. Il che comportava che, quando ci si trovava di fronte ad una fede correttamente confessata e coerentemente vissuta, si concludeva che anche l’eventuale interpretazione del testo biblico, spesso «accomodata», data da un simile «fedele», dovesse essere necessariamente legittima e perfino determinante.

Sant’Agostino[14] aveva dichiarato che, anche qualora l’interpretazione data da un simile fedele non fosse comprovata affatto dal senso letterale del testo, essa dovesse comunque essere accettata. Non è forse la «carità» – spiegava il grande vescovo di Ippona – «lo scopo per cui un testo come quello biblico è stato dato all’uomo?». Se dunque dall’interpretazione del testo, qualcuno ricava un orientamento che genera «carità» il testo ha raggiunto comunque lo scopo, quali che siano state le strade che quel «fedele» ha potuto percorrere.

Questo principio, accettato quasi universalmente nella prassi comune dei fedeli, stava spesso alla base anche del cosiddetto passaggio dal «senso letterale» al «senso spirituale» del testo biblico, senza rendersi conto che tutto questo sta o cade a condizione che vi sia una verifica seria e completa della corrispondenza ineliminabile fra fides quae creditur e fides qua creditur del sostenitore di una determinata interpretazione, nella linea, sempre da rispettare scrupolosamente, della doppia koinōnia: diakronika e synkronika, che garantisce l’unità della Chiesa.

Di eretici integerrimi è piena la storia della Chiesa ed Agostino stesso dovette fare un’esperienza molto dura con il suo antagonista Pelagio.

Da qui l’oggettiva necessità di fare riferimento ad un magistero vivo presente nella Chiesa e garantito dal charisma veritatis certum come ha giustamente richiamato nel numero 8, da noi citato, la Costituzione Conciliare Dei Verbum.

g) i rischi della superficialità «spirituale»

Nell’assenza, o forse qualche volta nella latitanza, di questo riferimento necessario, la strada, perfino , della lettura individualista o spiritualista della Scrittura può divenire travolgente come un torrente in piena. La storia medievale e moderna della Chiesa ha dovuto far fronte a tanti movimenti tumultuosi che generavano individualismi ad oltranza che sfociavano in gruppi o correnti chiaramente «ereticali o scismatici», vagamente definiti «devoti o spirituali», oppure orgogliosamente .

Ci sono voluti secoli per trovare una risposta sicura a situazioni spesso molto drammatiche. E potrebbe essere curioso dover ammettere che la risposta è venuta alla fine da dove nessuno si aspettava che arrivasse.

Forse dobbiamo pronunciare un vocabolo che susciterebbe ancora in qualcuno delle rimostranze: «Illuminismo».

La rinascita dello spirito critico, dovuto certamente in radice a ciò che noi in Italia chiamiamo «Umanesimo e Rinascimento», ha prodotto, con l’affermazione dell’Illuminismo, una rilettura totale di tantissime cose date per acquisite dalla tradizione che però, adesso, non si poteva più fare a meno di rivisitare, osservandole da altre prospettive più rispettose della ragione umana.

I risvolti che tutto questo avrebbe causato nel giudizio sulla storia dell’esegesi cristiana hanno fatto un po’ di fatica ad ottenere cittadinanza piena nella chiesa cattolica, ma poi, a partire dalla Divino Afflante Spiritu del 1943 si sono affermati impetuosamente quasi ovunque, dando origine a un numero sconfinato di studi biblici prodotti con scrupoloso rispetto del metodo storico-critico da autori pienamente cattolici che si sono imposti come autori riconosciuti e apprezzatissimi dalla comunità scientifica internazionale.

Il Vaticano II si sarebbe poi incaricato di aggiungere il crisma e l’autorevolezza di un Concilio Ecumenico ad un cammino lungo, sofferto, ma che aveva trovato finalmente il suo sbocco definitivo.

Si trattava adesso di rivisitare però, anche con sguardo critico, ma più sereno, la tradizione patristica nel tentativo di recuperare ciò che proseguiva comunque a costituire un patrimonio prezioso da non ignorare del tutto.

h) un ritorno ai Padri?

Come avrebbe potuto un presbitero nutrirsi personalmente, e nutrire i suoi fedeli col pane della Scrittura ispirata, senza rendersi conto che la fede stessa della Chiesa sta o cade a partire proprio da una «seconda» lettura del testo biblico compiuta alla luce della risurrezione di Gesù Cristo Signore?

Gli studi, anch’essi compiuti col metodo storico-critico, sull’esegesi dei Padri, a partire almeno dalla seconda metà del XIX secolo, rendevano tutti gli studiosi consapevoli che non si dovesse fare, della loro esegesi, di ogni erba un fascio. E infatti si cominciò a rendersi conto dell’importanza della lettura «tipologica» della Bibbia intimamente intrecciata al patrimonio liturgico della Chiesa, «fonte e culmine», come scrive lo stesso Vaticano II, di ogni altra manifestazione ecclesiale.

Ma, soprattutto, ci si rese conto di quanto fosse fondamentale per la fede cristiana l’assioma dei Padri sull’unità dei due Testamenti.

Il metodo storico-critico non bastava da solo a rendere ragione di tutto il patrimonio cristiano. E, d’altra parte, bisognava anche non trascurare, insieme alla lettura «tipologica» del testo biblico, la sua lettura correttamente «spirituale» che la tradizione aveva sempre coniugata con ciò che, in termini tradizionali, veniva chiamata più specificamente lettura «allegorica» della Scrittura ispirata.

Elementi che non si potevano certo ignorare, ma che tuttavia avevano bisogno di particolare attenzione perché una lettura «accomodata» alle pretese individualistiche, superate dal metodo storico-critico, cacciato dalla porta non rientrasse poi dalla finestra, come si dice in Italia.

i)la riscoperta della lectio divina

Nel pieno del dibattito in corso fra esegeti, patrologi e cultori della teologia spirituale degli anni successivi al Concilio Vaticano II, è rinato un profondo e trascinante interesse alla lectio divina nelle quattro scansioni individuate da Guigo il certosino nel XIII secolo di lectio-meditatio-oratio-contemplatio.

I Documenti ufficiali della Chiesa, che fino ad allora ne avevano parlato quasi con pudore, e limitandosi a piccoli suggerimenti pratici diretti ai candidati al sacerdozio o alla vita consacrata, si sono fatti più espliciti a cavallo del passaggio del Millennio, soprattutto per impulso di Giovanni Paolo II.

Ho scritto un libro su questo argomento[15] e non intendo certo ritornarci sopra, ma non posso fare a meno di notare che proprio questo particolare approccio alla Scrittura ispirata, mentre sembra proporre una via d’uscita agli studiosi del testo biblico[16], sta offrendo simultaneamente la possibilità di proseguire a gustare con la misura giusta anche l’insegnamento dei Padri[17].

L’«Epiclesi» è una necessità

Soltanto con i presupposti della fede e dell’amore, insegnavano i Padri, possiamo aprire il libro delle Scritture Sante ma, anche in questo caso, non senza chiedere insistentemente di conoscere i segreti, e dunque anche i significati autentici, nascosti fra le righe delle Scritture ispirate, all’Unico che scruta i misteri di Dio (Cfr. I Cor 2,11), con l’invocazione allo Spirito Santo.

Bisogna chiedere.

Chiedete e otterrete, bussate e vi sarà aperto perché chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto” (cfr. Mt 7,7-12). E si chiede il dono dello Spirito Santo con la fiducia di ottenerlo davvero.

Insegna Luca:

“Se voi dunque che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito santo a quelli che glielo chiedono?” (Lc 11,13). E si tratta dello Spirito promesso da Gesù: “Vi manderò lo Spirito che vi introdurrà in tutta la verità“( Gv 16,13). Nessun altro può conoscere i segreti di Dio se non colui che viene dalle profondità di Dio (Cfr. I Cor 2,11).

Stupisce la possibilità stessa che avverte un presbitero di porre questa invocazione a proposito del testo biblico accanto ad un’altra invocazione che ripete sul pane, sul vino, e poi sull’intera assemblea, in ogni celebrazione eucaristica: “Manda il tuo Spirito su questo Pane e su questo Vino perché diventino per noi il Corpo e il Sangue ecc.”. Oppure: “perché tutti noi che ci nutriamo di questo pane e condividiamo questo vino diventiamo un unico corpo“.

Se il dono dello Spirito va chiesto proprio allo stesso modo con cui lo si chiede sul Pane, sul Vino o sulla comunità orante delle nostre celebrazioni eucaristiche, non vorrà forse tutto questo insegnare implicitamente che, grazie alla nostra personale epiclesi compiuta in comunione con tutta la Chiesa, il libro delle Scritture assume di fatto una qualità particolare tale da permetterci di intenderlo con lo stesso Spirito (eodem Spiritu) con cui è stato scritto e consegnato alla comunità di fede?

La possibilità di accostare il testo biblico agli altri doni concessi dal medesimo Spirito alla comunità del Signore, perché se ne nutra e cresca fino alla piena maturità di Cristo (Cfr. Ef 4,13), suggerisce la natura salvifica che accompagna sempre ogni comprensione della Scrittura ispirata. Infatti, qualunque comprensione personale trova conferma della sua autenticità unicamente quando viene verificata dall’accoglienza della cattolicità della Chiesa.

Gregorio Magno, già nel VI secolo, va perfino oltre nello sviluppo di questo concetto. Un «oltre» che non voglio privarmi del piacere di indicarvi quasi a suggello di questa mia comunicazione.

Dice Gregorio:

“So che per lo più molte cose nella sacra Scrittura, che da solo non sono riuscito a capire, le ho capite mettendomi di fronte ai miei fratelli (quae solus intellegere non potui, coram fratribus meis positus intellexi). Attraverso questa scoperta ho cercato di indagare anche questo per rendermi conto per merito di chi io ricevessi tale capacità di comprensione. E’ chiaro infatti che ciò mi è dato a pro di coloro che mi sono vicini. Ne consegue, per dono di Dio, che il senso cresce e lì orgoglio diminuisce, quando per voi imparo ciò che in mezzo a voi insegno; perché – è la verità – per lo più ascolto con voi ciò che a mia volta vi dico (propter vos disco quod inter vos doceo, quia verum fateor – plerumque vobiscum audio quod dico)”[18].

(igargan@tiscali.it)Guido Innocenzo GarganoOSB Camaldolese [1] Cfr. Quis dives salvetur, 3,1, disponibile nella versione italiana di M. G. Bianco (a cura di), Clemente Alessandrino. Quale ricco si salverà?, Città Nuova, Roma 1999, pp. 24-25.[2] Cfr. G. I. Gargano, La lectio divina nella vita dei credenti, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2008, pp. 79-97.[3] Enchiridion Biblicum (ED) 584.[4] EB 601.[5] EB 597.[6] EB 599.[7] Cfr. C. Vagaggini, Maria nelle opere di Origene, OCA 131, Roma 1942.[8] Cfr. M. I. Danieli (a cura di), Origene. Omelie sulla Genesi, Città Nuova, Roma 1978. Cfr. anche G. I. Gargano, Le Scritture sorgenti della vita. Il pozzo di Giacobbe in Origene, in «Parola Spirito e Vita» 5 (1982) 276-285.[9] S. Zincone (a cura di), Giovanni Crisostomo. Omelie sul Vangelo di Matteo, 1,1, Città Nuova, Roma 2003, p. 33.[10] Moralia in Job, V, 34,16 in P. Siniscalco (a cura di), Gregorio Magno. Commento morale a Giobbe/3 (XIX-XXVII), Città Nuova,  Roma 1997, p. 354.[11] Girolamo, Commentarium in Ecclesiasten, III, 12/13 in PL 23,1039A.[12] Cfr. Ugo di Rouen, Dialogorum Libri, V,12 in PL 192,1206D: «Ecclesia legit et tenet librum Scripturarum».[13] M. Simonetti (a cura di), Origene. Commento al Cantico dei Cantici, I,1, Città Nuova, Roma 1976, p. 76.[14]Cfr. Agostino, De Doctrina christiana, I, 36. 41, NBA VIII, Città Nuova, Roma 1992, p. 54.[15] G. I. Gargano, La lectio divina nella vita dei credenti, Ed. san Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2008.[16] E’ ciò che si sta tentando di fare da diversi anni. Si vedano, per esempio, riviste come «Parola Spirito e Vita» edita dalle EDB di Bologna fin dal 1981 e tuttora animata congiuntamente da esegeti biblici, patrologi ed esperti di teologia spirituale.[17] Cfr. le tante pubblicazioni delle edizioni Qiqajon fondate dalla comunità di Bose sotto la direzione del geniale spiritualista italiano Enzo Bianchi, ma ultimamente anche vedi: G. I. Gargano, Il sapore dei Padri della Chiesa nell’esegesi biblica. Introduzione a una lettura sapienziale della Scrittura, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2009.[18]  Gregorio Magno. Omelie su Ezechiele, II, 1, a cura di Vincenzo Recchia, Città Nuova, Roma 1993, p. 49.