Vita Chiesa

I cattolici in Turchia, un piccolo gregge che lavora per la pace

Su oltre 79 milioni di abitanti, i cattolici turchi sono, secondo l’ultimo annuario statistico della Chiesa cattolica (2014), appena 87mila (0,11%) suddivisi in 7 diocesi, 47 parrocchie, una missione senza sacerdote e 13 altri centri. Di queste 47 parrocchie, 8 sono guidate da un parroco del clero diocesano, 26 da sacerdoti appartenenti a istituti religiosi, 7 amministrate da un vicario, due affidate a religiose, una a dei laici e tre totalmente vacanti. Una piccola Chiesa guidata da sei vescovi, 11 sacerdoti diocesani, 56 quelli religiosi, un diacono permanente, 7 religiosi non sacerdoti, 49 religiose professe, due membri di Istituti secolari femminili, 6 missionari laici e 74 catechisti. Nel 2014 la Chiesa turca ha celebrato una sola ordinazione sacerdotale, dopo tre anni di vuoto. Nel Paese della Mezzaluna la Chiesa cattolica non ha seminari e scuole dove gli attuali sei candidati al sacerdozio possono formarsi.

Segno di dialogo. «Non dobbiamo preoccuparci del numero ma solo di essere fedeli a Cristo. Ci penserà Lui a fare il resto. Possiamo essere segno di riconciliazione in questo momento di grandi tensioni; pacifici concittadini di questo Paese cui vogliamo dare il nostro contributo di dialogo, fraternità e riconciliazione». Le statistiche, impietose, che descrivono la Chiesa cattolica turca come «un piccolo gregge» non sembrano impensierire padre Lorenzo Piretto, domenicano, dal dicembre scorso nuovo arcivescovo latino di Izmir (Smirne), in Turchia. Settantatré anni metà dei quali passati tra le comunità di Istanbul e dell’Egeo, monsignor Piretto è uno dei tre vescovi nominati negli ultimi mesi da papa Francesco, in altrettante diocesi latine vacanti, segno evidente della sua attenzione verso la Chiesa cattolica nel paese della Mezzaluna. Gli altri due sono monsignor Paolo Bizzeti, gesuita, vicario apostolico di Anatolia, andato a ricoprire la stessa carica di mons. Luigi Padovese, ucciso il 3 giugno 2010 a Iskenderun, e padre Ruben Tierrablanca, nuovo vicario apostolico di Istanbul al posto di monsignor Louis Pelatre, che ha lasciato per raggiunti limiti di età. Placatesi, almeno sembra, le tensioni tra Vaticano e Turchia, scoppiate un anno fa dopo le parole pronunciate dal Pontefice che definì «genocidio» il massacro dei cristiani armeni nel 1915, la Chiesa turca, piccola ma con una grande storia, è pronta a riprendere con slancio il proprio cammino che non si è mai fermato, nemmeno nei momenti peggiori come gli attacchi mortali a don Andrea Santoro e a monsignor Padovese.

La direzione è chiara anche se le difficoltà non mancano. In Turchia la Chiesa cattolica non è riconosciuta ufficialmente sebbene la libertà religiosa sia prevista dalla Costituzione. All’interno delle chiese si può celebrare e condurre attività pastorali senza problema. «È giunto il tempo di passare da una Chiesa considerata straniera a una Chiesa turca – spiega al Sir l’arcivescovo – attraverso un’inculturazione maggiore e l’impegno dei cattolici. La maggioranza di questi sono stranieri. Crescono anche piccole comunità autoctone che vedono la presenza anche di convertiti, persone che hanno deciso di mettere in gioco la loro vita. Una cosa impensabile in altri Paesi a maggioranza islamica. Anche le difficoltà legate alla lingua e al suo uso nella liturgia si stanno superando». Permane, tuttavia, «una certa paura per il futuro, visti alcuni sviluppi legati alle tensioni nell’area» che hanno avuto dei riflessi interni nel Paese del presidente Erdogan, come testimoniano diversi attentati terroristici, le repressioni e la censura delle proteste contro il Governo. Tutto questo mentre si discute intorno alla nuova Costituzione che potrebbe anche perdere ogni riferimento al secolarismo e infliggere così un duro colpo all’ideologia kemalista, laica, repubblicana e nazionalista a favore di un islamismo sempre più visibile.

Un piccolo ingranaggio. In questo contesto la Chiesa rappresenta «un piccolissimo ingranaggio utile al Paese in un momento in cui c’è bisogno davvero di costruire ponti». «Osservo con grande speranza i tanti musulmani, soprattutto giovani, che guardano con curiosità e simpatia alla Chiesa e al Cristianesimo. Un sincero desiderio di conoscenza che mi fa ben sperare per il futuro del paese. Qui non ci sono solo musulmani radicali o estremisti pronti a combattere in Siria». Ma il pensiero di monsignor Piretto va anche alle centinaia di migliaia di migranti arrivati e bloccati in Turchia. «Con i nostri poveri mezzi e con l’aiuto di Chiese internazionali, cerchiamo di fare il possibile per aiutarli. Non facciamo distinzioni» ma, ammette, «con i migranti musulmani prestiamo particolare attenzione per non essere accusati di proselitismo. Per questo passiamo attraverso le associazioni turche». «É un momento molto delicato che cerchiamo di vivere al meglio contribuendo alla convivenza e alla riconciliazione. Ci guidano umiltà, discrezione e la speranza cristiana che ci impedisce di scoraggiarci». Anche quando fuori il mondo brucia.