Vita Chiesa

I nuovi peccati? Non sono una novità

di Ferdinando BatazziA volte la stampa mette i titoli di un articolo o di un servizio nella maniera più allettante per destare l’attenzione dei lettori, così nell’«occhiello», nel titolo e nel «sommarietto». Non sempre, però, su argomenti che riguardano la Chiesa e la vita della chiesa. Qualche giorno fa ho fatto un balzo sulla seggiola quando ho letto: «Corsi di aggiornamento, la Chiesa fa studiare ai preti i nuovi peccati» per essere dei confessori «moderni».

La Chiesa l’ha fatto, lo fa e lo farà sempre, l’aggiornamento della vita morale, in positivo e in negativo, tanto nella vita privata quanto nella vita sociale o comunitaria. E, questo, perché? Perché gli Apostoli, e successivamente i vescovi e, ancora subordinatamente i sacerdoti, hanno ricevuto direttamente da Gesù Cristo il potere di «rimettere i peccati» come quello di «non rimettere», espresso bene nel greco (crateo) che vuol dire «ritenere», tuttavia due verbi contrari con effetti corrispondenti. Questo potere o potestà appartiene alla Chiesa, come dogmaticamente si evince da Matteo 16, 18-19; da Matteo 18,18 e – come afferma il Concilio di Trento (can 3, sess XIV) in modo precipuo da Giovanni 20, 22-23. Ho detto successivamente, perché i vescovi sono unici e veri successori degli Apostoli: questi hanno la «pienezza del Sacerdozio» che ricevono, sacramentalmente, nel giorno della loro consacrazione; ho detto subordinatamente ai sacerdoti (parroci o non parroci) perché il sacerdozio ci viene ordinato dal vescovo, ma sempre derivato dall’unico Sacerdozio che è quello di Cristo Signore, che comporta il potere di celebrare l’Eucarestia e quello di rimettere i peccati (confessione o penitenza).

Cambiano i tempi, cambiano le culture, cambiano i modi e gli oggetti di fine e di mezzo, nella realtà del vivere, cambiano logicamente anche i modi e le soggettività e oggettività di peccare o non peccare. E il ministero della confessione e la lista dei peccati si sono sempre aggiornati. Logicamente, no? La morale della teologia (più esatto che non teologia morale o etica) comincia subito con gli Apostoli. Chi si fa cristiano, ad esempio, deve farsi prima circoncidere? Oppure si possono mangiare i cibi di animali che abbiano ancora il sangue? L’Apostolo Paolo ci dà tre liste lunghissime di peccati (vedi Rom 1, 25; Gal 5,19-21) cataloghi di un universale concetto che si traduce nel particolare concreto, fino a rivelare che, chi commette tali peccati «viene escluso dal Regno di Dio» (Ef 5,3-5). La Chiesa primitiva si aggiorna di conseguenza, e stabilisce come crimina maiora l’omicidio, l’adulterio, l’aborto, l’apostasia. Così fanno i Vescovi con i lori preti e i loro fedeli. Basterebbe San’Agostino. Cito solo San Cipriano (III Sec.): gli imperatori Decio e Valeriano, con le loro persecuzioni dei cristiani, magari con l’obbligo di incensare (adorare, quindi) la statua dell’imperatore, posero, di conseguenza, l’occasione di un «peccato moderno»: coloro che hanno incensato l’imperatore – è il ragionamento del Vescovo Cipriano – solo materialmente, per scampare alla morte, ma in cuor suo rifiutando il consenso, e, poi se ne sono pentiti (lapsi) si possono o debbono essere assolti?La Chiesa, a livello universale e nelle singole diocesi, si è sempre aggiornata e, nei Catechismi ha sempre aggiornato i fedeli di Cristo. Dalle grandi Somme del Medioevo (nelle Decretali di Innocenzo III si dice persino, qualora un confessore abbia vietato il Sigillo Sacramentale, «che sia rinchiuso in un carcere per sempre») ai moralisti dell’Ottocento e contemporanei (senza far nomi, perché la fila sarebbe lunghissima). Per non dire dell’insegnamento che proviene dalle Università Teologiche e, in primis, dai Seminari. Tutte le Diocesi impostano, periodicamente, l’aggiornamento del Clero, in parallelo alle esigenze delle problematiche che provengono dalla vita sociale, familiare, tecnica, scientifica, medica, chirurgica, del lavoro, della scuola e dell’ingegneria genetica. Oggi si fa, il tutto, non solo con conferenze, lezioni e libri, ma anche con internet. E, a pensarci bene, come facevano i parroci o comunque i sacerdoti, nei loro ritiri mensili di una volta: la preghiera comune, la riflessione spirituale, il pranzo nella casa del pievano e, il pezzo forte, l’aggiornamento «della confessione» con l’esposizione e soluzione di un caso morale, bene impostato e particolareggiato, con l’estrema delicatezza del riserbo, che ti faceva tornare in mente la dottrina e il Magistero della Chiesa. La testimonianza: «Chi viene dal prete cerca anche una parola di vita»Se i peccati sono cambiati, i fedeli non se ne sono accorti. «Chi viene a confessarsi usa in genere sempre la stessa formulazione, imparata da bambino: i peccati dichiarati riguardano per lo più l’osservanza dei precetti, la frequenza alla Messa domenicale, l’abitudine alla preghiera…» Secondo don Francesco Sensini, direttore dell’ufficio catechistico della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, dei «nuovi peccati» non si sente parlare spesso dentro il confessionale. «Forse dovremmo essere noi preti – afferma – a porre domande del tipo “ha pagato le tasse? Rispetta i limiti di velocità? Ha pregiudizi verso gli stranieri?” Ma non è facile farlo durante la confessione, un momento durante il quale dobbiamo soprattutto essere discreti, porci in una dimensione di ascolto. Sarebbe utile invece fare incontri prima della confessione, per spiegare quali domande farsi durante l’esame di coscienza». In certi periodi dell’anno, come la Quaresima, la «corsa al confessionale» rischia di aumentare il problema: «Si va a confessarsi in maniera frettolosa, senza convinzione. Servirebbe, in questi casi, una celebrazione penitenziale comunitaria, che introduce e prepara la confessione individuale».

Una domanda comunque don Sensini in genere la rivolge, a chi va a confessarsi da lui: «Alle persone che vengono abitualmente per fare un elenco di peccati, spesso chiedo se hanno fatto anche qualcosa di buono, se hanno contribuito a rendere migliore la vita delle persone vicine. È un modo per ricordare che non basta evitare i peccati, la conversione è qualcosa di più profondo». In questo senso, dice don Francesco, negli ultimi anni si nota qualche cambiamento in chi si rivolge al confessore: «Nel prete si cerca la capacità di capire, di intuire, di andare alle radici dei problemi. Si chiede non solo di essere ascoltati, ma di ricevere una parola di vita, che aiuti a fare chiarezza e dia la forza per andare avanti».

Un sacramento che ha bisogno di essere rilanciatoUn sollecito rilancio del sacramento della riconciliazione», per reagire alla «crisi del senso del peccato» che caratterizza la nostra epoca: lo chiedeva il Papa già due anni fa, con la lettera apostolica «Misericordia Dei» sul sacramento della penitenza, che Giovanni Paolo II scrisse nel 2002. Questa situazione negativa, secondo il Papa, ha registrato un inizio di inversione di tendenza in occasione del Giubileo, durante il quale il diffuso «ricorso alla penitenza sacramentale» ha offerto, secondo il Papa, «un messaggio incoraggiante da raccogliere con fiducia, creatività e perseveranza».

Il Papa chiede ai sacerdoti più spazio all’ascolto: tutti coloro che si occupano della cura delle anime, scrive, «hanno l’obbligo di provvedere che siano ascoltate le confessioni dei fedeli a loro affidati» e di mostrarsi «sempre e pienamente disposti» ad amministrare il sacramento della penitenza «ogniqualvolta i fedeli ne facciano ragionevolmente richiesta». La «mancanza di disponibilità ad accogliere le pecore ferite per poi ricondurle all’ovile», scrive Giovanni Paolo II, «sarebbe un doloroso senso di carenza di senso pastorale» nei sacerdoti: vescovi, parroci e rettori di chiese e santuari, aggiunge il Papa, «devono verificare periodicamente che di fatto esistano le massime facilitazioni possibili per le confessioni dei fedeli», soprattutto attraverso «la presenza visibile dei confessori nei luoghi di culto durante gli orari previsti, l’adeguamento di questi orari alla situazione reale dei penitenti, e la speciale disponibilità per confessare prima delle Messe» e anche durante le celebrazioni.

Per quanto riguarda i fedeli, «va riprovato qualsiasi uso che limiti la confessione ad un’accusa generica o soltanto di uno o più peccati ritenuti più significativi»: i penitenti «che vivono in stato abituale di peccato grave e non intendono cambiare la loro situazione – ricorda infatti il Papa – non possono ricevere validamente l’assoluzione». Riguardo alle «assoluzioni collettive», il Pontefice precisa che «l’assoluzione a più penitenti insieme senza la previa confessione individuale», prevista dal Codice di Diritto Canonico, «riveste un carattere di eccezionalità» e «non può essere impartita in modo generale» se non a causa di grave necessità. La sola «grande affluenza dei penitenti – precisa il Papa – non costituisce sufficiente necessità, non soltanto in occasione di una festa solenne o di un pellegrinaggio, ma neppure per turismo o altre simili ragioni dovute alla crescente mobilità delle persone». La chiesa o l’oratorio sono, per il Papa, i luoghi «propri» per ricevere la confessione, anche se «ragioni di ordine pastorale possono giustificare la celebrazione del sacramento in luoghi diversi».