Vita Chiesa

Il filosofo Marramao: anche i laici hanno bisogno del «perdono» di Papa Francesco

«Lo spirito del perdono» può essere un felice terreno di «contaminazione» feconda tra cattolici e laici, perché «nel perdono autentico c’è la dimensione qualificante dell’alterità, che non esclude una visione anche disincantata della dimensione conflittuale».  Il filosofo Giacomo Marramao, docente di filosofia teoretica  e filosofia politica all’Università Roma Tre, traccia una sorta di bilancio dei tre anni di Papa Francesco ponendosi, da laico, sulla «linea di confine con la religione», che si attraversa quando «l’etica va oltre l’etica». L’obiettivo ambizioso: un «universalismo delle differenze» che, partendo da questa «contaminazione», assicuri il proseguimento della specie.

Professore, perché il tema del perdono interessa anche il pensiero filosofico laico?

«Nel discorso filosofico internazionale contemporaneo – anche prima dell’avvento di Papa Francesco, che ha dato a questo tema, soprattutto con l’indizione del Giubileo della Misericordia, un impulso formidabile – il tema del perdono ha una rilevanza fondamentale. Il filosofo ebreo Jacques Derrida, ad esempio, partendo dall’impossibilità di arrivare a concepire il perdono, dopo i campi di sterminio nazisti, è arrivato a concludere che il perdono può essere soltanto ‘perdono dell’imperdonabile’. Quando la filosofia giunge a questo estremo, l’etica va oltre l’etica ed incontra la fede religiosa, che non è in primis un’ etica, ma va al di là di essa. E’ questa ‘etica al di là dell’etica’ che ci pone lungo la linea di confine con la religione. Il paradosso della fede è la rottura di qualunque economia dell’espiazione, del pentimento: il pentimento è importante, ma il perdono non può essere ridotto a un’economia del pentimento».

Attenzione, però, a non confondere il perdono con il lassismo, il monito del Papa…

«E’ il legame con le Scritture: con Gesù di Nazaret l’idea che si trova in Matteo 5, 23-24 ci dice che al di là di ogni economia del pentimento è fondamentale avere lo ‘spirito del perdono’, essere cioè aperti al perdono verso chi ha peccato contro di te. Il perdono, per Gesù, è fondamentale nel momento in cui c’è lo spirito del perdono anche da parte di chi ha avuto dei torti e proprio per questo è disposto a perdonare. Come è possibile dare senso a questo perdono? Anche qui ci può venire in aiuto Derrida, che racconta di due ebrei, nemici di lunga data, che si incontrano alla sinagoga nel giorno del grande perdono. Uno dei due dice all’altro: ‘Io ti auguro quello che tu mi auguri’, e l’altro gli risponde: ‘Cosa fai, ricominci?’. Se guardassimo il conflitto israeliano–palestinese da questa angolatura non tragica, forse riusciremmo a risolverlo! Il perdono, in altre parole, non esclude la giustizia, ma è soprattutto un richiamo a tutti ad attivare lo spirito del perdono. Perfino il perdono, infatti, può essere giocato strategicamente: anche un profittatore può chiedere perdono e non essere disposto a concederlo ad altri. Nel perdono autentico c’è invece la dimensione qualificante dell’alterità, che non esclude una visione anche disincantata della dimensione conflittuale: la storiella dei due ebrei dimostra che entrambi erano già collocati nello spirito del perdono».

Per aprirsi al perdono, raccomanda Papa Francesco, c’è bisogno della coscienza del peccato: ma non è proprio questa ad essersi progressivamente smarrita, nella cultura laica?

«Ha perfettamente ragione: è la logica dei diritti, che io condivido perché se c’è un punto in comune tra la dimensione laica radicale e quella religiosa radicale è proprio l’incontro sui diritti. Spesso, però, i diritti vengono recepiti in chiave strategica e non visti come un invito a fare comunità, ad incrementare il coefficiente di corresponsabilità per cui ognuno è responsabile anche dell’altro. Il rischio è che i diritti vengano inquadrati in una logica puramente acquisitiva, come guadagno espresso nell’acquisizione di una libertà solo giuridica, come mera libertà individuale, senza che ciò implichi una nostra chiamata in causa. Prendere sul serio il problema del perdono significa invece comprendere che il perdono riguarda anche la comunità, il nostro modo di stare insieme, perché ciascuno si senta interpellato, chiamato in causa dall’altro nella forma del dono. Come dice Derrida, la dialettica è tra dono e ‘per-dono’: siamo tutti interpellati nella comunità di relazioni, dove la relazione è un dono. Anche le persone possono diventare oggetto di relazioni utilitarie e strategiche: in questo caso l’altro diventa un mezzo e non in fine, mentre se viene e visto come un dono, l’altro è fine in se stesso. Quando agisco bene, non mi aspetto nessuna forma di ricompensa. Fare comunità diventa, allora, il punto di incontro di una filosofia che pensa lungo le linee di confine con la fede».

Il perdono, come punto di incontro tra cattolici e laici, può essere l’antidoto alla «disumanizzazione»?

«Oggi ci troviamo ai margini di una soglia della storia umana: una soglia delicata e rischiosa, perché per la prima volta non abbiamo soltanto le tecniche per dominare la natura esterna, ma disponiamo delle tecnologie per intervenire sul corpo umano e sulla vita. Quello che la specie umana sarà nel futuro dipende dalle nostre scelte. Nel Novecento abbiamo già avuto l’utopia del nazismo, un’aberrazione totale nata dall’ossessione della contaminazione. Un’ossessione identitaria che giunge fino al razzismo biologico, una pulsione identitaria ossessiva che si basa sul principio che l’io si può mantenere puro solo evitando al contaminazione con l’altro. Oggi, invece, abbiamo bisogno dell’ universalismo delle differenze: un universalismo che non soltanto tollera la differenza, ma considera la differenza un fattore costruttivo dell’umanità, perché è proprio la contaminazione con l’altro che assicura il proseguimento della specie. Come dice Raimon Panikkar, la casa dell’universale non è già unificata, ma va costruita».