Vita Chiesa

La Toscana? Terra di solidarietà, ma fortemente secolarizzata

Prof. Cartocci, nel suo libro del 2011 «Geografia dell’Italia Cattolica» (Il Mulino), la Toscana si piazzava al terzo posto – dopo Emilia Romagna e Val d’Aosta – per la secolarizzazione, secondo alcuni parametri numerici: frequenza alla Messa, 8xmille, insegnamento della religione, matrimoni civili e nascite fuori dal matrimonio. Si è chiesto il perché?

«Bisogna tornare indietro, alla fine dell’800, nel momento del passaggio dalla società tradizionale alla società moderna. Possiamo dire – schematizzando – che in quegli anni ci sono state tre ricette diverse. Nel Lombardo-Veneto il processo di modernizzazione politica e sociale è avvenuto prevalentemente attraverso la rete delle organizzazioni cattoliche (Opera dei Congressi, Casse Rurali…) con caratteristiche interclassiste. Un’altra ricetta di successo, ma di tutt’altro segno è stata quella Toscana e Emiliana. Qui in Toscana, al contrario del Lombardo Veneto, dove prevaleva la piccola proprietà, c’era la mezzadria con un rapporto di lavoro piuttosto antagonista. Dalla fine dell’800 in poi in Toscana è prevalsa una subcultura di orientamento socialista, repubblicano, qualche volta anche anarchico (specie sulla costa). Questo ha dato un’impronta di laicizzazione e di anticlericalismo».

Parlava di tre «ricette»…

«Poi c’è il Sud, che non ha avuto questo processo di strutturazione della società civile come le altre due aree, con la nascita di reti orizzontali di mutuo aiuto. Al Sud la struttura ecclesiastica è stata sostanzialmente una costola della società aristocratica tradizionale: il principe di Salina aveva in casa il curato…».

Comunque il visitatore apostolico inviato a Firenze nel 1905, trovò – a suo dire – una delle peggiori diocesi d’Italia… Forse le radici sono ancora più lontane?

«Certo c’è chiaramente Firenze capitale, con un nucleo di massoni liberali e anticlericali che diffondono questo orientamento laicista. Ma ancora prima c’è il giurisdizionalismo dei Lorena con il loro dispotismo illuminato. Nel Lombardo Veneto, prima della mobilitazione, c’era invece una capitale laicissima, Venezia, e poi nel resto un mondo rurale che in contrapposizione alla Serenissima, aveva una sorta di resistenza culturale che si esprimeva attraverso la rete cattolica delle parrocchie».

Quindi le differenze nascono da questi diversi percorsi storici…

«Ma le differenze vere tra il Veneto e la Toscana sono minime, oggi come allora. Sono differenze di grado, che si stanno fortemente riducendo. Il mondo cattolico toscano, anche se in misura minore, ha creato come quello del Lombardo Veneto delle reti sociali orizzontali. Pensiamo alla grande lezione delle Misericordie, confraternite attive socialmente, che erano anche elementi di interclassismo. E accanto alle Misericordie, in Toscana, sono nate le Pubbliche Assistenze, che ne hanno copiato il modello organizzativo. Nel Meridione invece il messaggio evangelico della Riforma cattolica tridentina ha fatto grande fatica a passare. Dai parametri oggi è il Meridione l’area meno secolarizzata, ma non saprei se alla fine è più pagana».

Oggi le differenze si sono attenuate…

«Trent’anni fa gli opposti di secolarizzazione in Italia erano Vicenza e Livorno. Oggi la differenza si è molto ridotta perché nel centro Nord il processo di secolarizzazione è stato molto omogeneo. Silvio Lanaro, in uno studio della fine degli anni ’80 (L’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988), parlava già del processo di secolarizzazione del Veneto: dall’oggi al domani era crollato il tasso di natalità, per tutta una serie di elementi che riconduceva ad un processo rapidissimo di secolarizzazione di pari passo con il miracolo economico».

Se la cifra totale della Toscana è quella della secolarizzazione, ci sono però zone in controtendenza. Penso al Casentino o alla Garfagnana…

«Non ho dati aggiornati, però si può dire che la Toscana è un microcosmo. Pensiamo ad esempio alla Garfagnana, con la Repubblica di Lucca: tutto un altro mondo fatto, guarda caso, di coltivatori diretti. Oggi sono aree di emigrazione, dove la popolazione è residuale e molto anziana e questo può spiegare perché la pratica religiosa rimane più alta che non in aree urbanizzate. Da questo punto di vista sono ancora insuperabili gli studi fatti da don Silvano Burgalassi. Mi sembra che sia proprio Burgalassi che riporta una cartina delle diocesi del 1300 che è sostanzialmente uguale a quella di oggi».

E questo cosa significa?

«La Toscana è la terra dei municipalismi esasperati (San Giovanni Valdarno contro Montevarchi, Firenze contro Prato, Prato contro Pistoia…). Ma la scala delle Diocesi non è come nel Mezzogiorno, una ogni 10 km: fin dal Trecento, un tempo molto prossimo alla frammentazione comunale, in Toscana le Diocesi sono un elemento di ordinamento del territorio in una scala più ampia. Tanto è vero che ci sono diocesi di città che oggi hanno perso la centralità che avevano nel Medio Evo, penso a Volterra, Pienza, Massa Marittima… I vescovi toscani del 2013 sono più o meno nello stesso numero di quelli del 1310 che andarono Innocenzo III».

Torniamo ai numeri. Qual è il trend? La secolarizzazione è arrivata al livello massimo?

«Andrà ancora avanti, perché dobbiamo ancora assorbire il processo di secolarizzazione che proviene dall’immigrazione. D’altra parte se guardiamo ad altri paesi europei il processo è ancora più accentuato. Pensiamo al livello di partecipazione alla Messa che da noi rimane ancora abbastanza alto, anche se in realtà minore di quel 30% che nelle interviste  dichiara ancora di farlo. Ma il fatto che lo dichiarino significa che per loro la pratica religiosa  è comunque un valore. Molti parroci sono disperati perché al catechismo trovano i bambini che non sanno neanche farsi il segno della croce, perché vengono da famiglie non praticanti…».

Qui entra in gioco la crisi della famiglia…

«La trasmissione intergenerazionale della fede sconta il fatto che i genitori secolarizzati riproducono secolarizzazione, sono un volano di questo processo. Siamo ancora nella fase in cui dobbiamo aspettarci una ulteriore discesa di pratica religiosa. Ma potremmo avere anche effetti di recupero nelle fasi successive dell’età».

In effetti si assiste sempre più spesso ad un ritorno alla fede in età avanzata…

«Il problema è capire se sono i 50 anni della vita di una persona o i 50enni del 2013. Ovvero se è un problema di ciclo di vita (a 14 anni si abbandona la pratica ma a 50 anni ci si ritorna) oppure è un problema di generazioni. I due fenomeni certamente si intrecciano e non è facile decifrarli. Poi c’è questo malinteso multiculturalismo e relativismo culturale che arriva a impedire di fare il presepe. Così quel milieu culturale di contorno, che sostanzialmente era comune a tutti, che fossero comunisti o non comunisti, viene inciso dal fatto che arriva un bambino dal Bangladesh e le maestre, per un malinteso senso del rispetto interculturale, censurano ogni riferimento religioso. Sono atteggiamenti che hanno la loro valenza nel processo di trasmissione dei valori religiosi, che finiscono per essere interrotti. Anche questo produce una sorta di agnosticismo incolore».

Oltre a quelli che ha preso in esame nel suo libro ci sarebbero altri indicatori interessanti da considerare?

«Ce ne sarebbero moltissimi, cambiando il tipo di ricerca. A livello micro si potrebbero fare ricerche a livello di famiglia: se le persone fanno una preghiera prima dei pasti, se ci sono momenti di socialità nella lettura di testi sacri… Questo per capire lo spessore della pratica religiosa, cosa c’è dietro l’andare alla Messa. Il processo di secolarizzazione nei numeri è chiarissimo però c’è un sacco di gente che prega per conto suo… Per cui altri livelli di ricerca potrebbero mettere in evidenza questi aspetti. Franco Garelli ha fatto ricerche attraverso interviste e ne deduce che ognuno prende della fede cattolica quello che gli serve, quando gli serve, una specie di cristianesimo “alla carta”. Mi sembra un modo molto italiano, nel senso deteriore del termine. Lo trovo un parente molto stretto del relativismo. Una forma di secolarizzazione machiavellica».

Nel suo studio sottolineava come il papato di Giovanni Paolo II avesse contribuito a rivitalizzare il mondo cattolico. Dal suo punto di vista cosa ha significato il papato di Benedetto XVI e cosa può dare, almeno stando ai primi gesti, quello di Francesco?

«La mia impressione è che Giovanni Paolo II abbia ridato orgoglio, abbia fatto rialzare la testa a un mondo cattolico che era ripiegato sotto il martellamento della secolarizzazione, pur senza arrestarla. Papa Benedetto mi sembra abbia cercato di tenere insieme il vecchio col nuovo, di sottolineare gli elementi di continuità del Concilio con la Tradizione. Conosco bene l’Argentina dove sono stato più volte e mi ha molto incuriosito l’elezione del card. Bergoglio: si è presentato in modo dimesso e questo non poteva non creare entusiasmi, perché uno dei problemi della Chiesa è proprio quello di veicolare un’idea di separatezza. La ritualità regale legata alla persona del Papa e alla Curia romana, è un elemento molto italiano ed europeo. Probabilmente qualsiasi papa proveniente dal resto del mondo ne avrebbe marcato la discontinuità. Quello che mi ha impressionato di più è questo fare sistematico riferimento alle altre fedi e confessioni cristiane e la sottolineatura di essere vescovo di Roma. Il rischio potrebbe essere quello di ridurre tutto alla sottolineatura della Chiesa povera, anche se lui ha detto subito che la Chiesa non è una Ong».