Vita Chiesa

Le Caritas toscane in mezzo ai terremotati

di Fabio MarellaVice-direttore Caritas Firenze

Mi sono recato nelle zone terremotate nell’ambito del gemellaggio delle Caritas della Toscana e della Calabria con la Chiesa aquilana. Per una settimana ho sostituito il parroco del paese di Fossa, ormai ridotto ad una tendopoli: infatti il terremoto l’ha reso quasi totalmente inagibile.

Al mio arrivo nella tendopoli di Fossa, la prima persona che mi ha colpito è stato un giovane, che stava uscendo dal campo e indossava una maglietta nera con la scritta «Si ricomincia».

In un primo momento non ne avevo compreso esattamente il significato, ma mi sono bastati pochi minuti, appena ho iniziato a parlare con gli abitanti, per rendermi conto del motivo di tali parole: gli abruzzesi sono uomini e donne forti e determinati, pronti a ricominciare la vita di ogni giorno, nonostante i lutti e le difficoltà incontrate.

Mi porto a casa tanti volti e situazioni da non dimenticare: credo che i tanti volontari che si sono alternati e continueranno ad alternarsi nelle zone colpite da questa calamità potrebbero confermare la mia opinione.

Il paese, come ho detto, è stato leso gravemente e per di più la montagna che lo sovrasta non è stabile, ma la gente non perde la speranza. Infatti tutti mi ripetevano che nelle casette di legno, che stanno preparando lavorando giorno e notte, ci andranno, perché l’inverno è troppo freddo per rimanere nelle tende, ma rimarranno in tali abitazioni provvisorie solamente il tempo necessario affinchè le loro case siano nuovamente agibili.

Più che raccontarvi quello che ho fatto, desidero condividere con voi pensieri e comportamenti di tre persone in particolare, tra la gente che ho avvicinato. Mi hanno molo colpito infatti Angela, Giuseppina e Francesco con il suo cane adottivo, di nome Simba.

Angela è chiamata da me, scherzosamente, «la sacrestana», perché accudisce in modo accurato la tenda adibita a Chiesa: svolge questo compito con la stessa precisione con cui fino a pochi mesi lo faceva nella sua chiesa di Fossa, che ricorda con tanto rimpianto, ma non rassegnazione.

Donna semplice, ma di grande fede nei comportamenti e nelle parole. Ad una mia domanda mi ha dato una risposta che mi ha fatto riflettere. Nella tenda-Chiesa accanto al crocifisso c’è appeso un quadretto, nel quale è rappresentato san Emidio intento a sorreggere un’ abitazione colpita dal terremoto, in quanto tale santo è protettore dei terremoti.

Adesso san Emidio è rappresentato con una semplice immagine, ma nella Chiesa in paese, mi racconta, c’è una statua che lo rappresenta. Con un po’ di imbarazzo io le ho fatto notare che non era stato di grande aiuto…..

Angela con poche parole e con lo sguardo che contraddistingue le persone di montagna, mi ha risposto che apparentemente non era stato così, ma, anche se san Emidio era stato un po’ birbone, tutto quello che era successo non avrebbe dovuto farci perdere la fede, perché il Signore vede cose che noi talvolta non arriviamo a comprendere. Egli avrebbe quindi trovato un modo per aiutare la sua gente. Inoltre avrebbe potuto esserci un numero maggiore di morti in paese.

Con grande semplicità che genuina lezione di fede ci ha trasmesso!

Giuseppina ha 97 anni; quando sono andato a trovarla, l’anziana donna si è scusata di non poter partecipare alla messa quotidiana, a causa delle forze che la stanno abbandonando.

Abbiamo parlato a lungo e quando le ho chiesto cosa provasse a ritrovarsi dentro ad una tenda a questa età, anche lei mi ha sorpreso, dicendomi di aver superato due guerre, «la vita qui in montagna non è mai stata semplice» e di essere quindi fiduciosa di poter superare anche questa difficoltà con l’aiuto del Signore. «Ma ciò che mi dà pensiero – ha puntualizzato la signora – sono i giovani: non sono abituati ai sacrifici, vanno subito in crisi. Io prego per loro ogni sera. Se il Signore me ne darà il tempo, vorrei rivedere il mio paese sistemato prima di morire».

Anche in lei quanta fede e speranza ho trovato!

Francesco, fa il vigile del fuoco, e una mattina mi ha accompagnato a visitare il paese di Fossa, ormai disabitato: un paese spettrale. Con quanta delicatezza mi ha descritto la situazione attuale e con quanto trasporto e dolore constatava le persone che non si erano salvate. Partecipava al dolore della popolazione…

Vedendo il suo volto, mi è venuto in mente un passo della Lettera ai Romani: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri».

Mentre mi stava descrivendo la situazione, è uscito da una casa diroccata un canino, Simba, e gli è corso incontro. Mentre Francesco lo accarezzava mi ha spiegato che il suo padrone era andato via e Simba non si era voluto allontanare dal paese ormai deserto: era rimasto a fare la guardia. Francesco ogni giorno dalla tendopoli gli porta da mangiare.

Credo non ci sia bisogno di aggiungere altro: i tanti volontari che hanno raggiunto queste zone erano arrivati per portar aiuto e sono, anzi siamo, ripartiti dopo essere cresciuti nell’aiuto reciproco e aver stretto nuove amicizie.

Nella foto: da destra Luigi di Firenze con Salvatore volontario vincenziano di Melfi e Roberto della Protezione Civile al cantiere della Scuola di San Demetrio

I giovani in aiuto delle parrocchieLa presenza della Caritas nei luoghi terremotati è stata organizzata, secondo uno stile ormai consolidato, in modo da favorire la nascita di legami duraturi tra le diocesi. Alle Chiese della Toscana è stata affidata, insieme alla Calabria, la zona di San Demetrio in Valle Subequana: un vicariato della diocesi dell’Aquila, a circa 35 kilometri dal capoluogo, costituito da piccoli paesi in valli di montagna. Per organizzare la presenza dei volontari – spiega don Renzo Chesi, coordinatore regionale della Caritas – sono all’Aquila (vi resteranno almeno fino al 31 dicembre) 4 operatori, due toscani e due calabresi, che hanno il compito di verificare le necessità e i bisogni più urgenti. Durante l’estate, gruppi di giovani provenienti da diverse diocesi toscane hanno fatto servizio nelle tendopoli. Tanti i compiti svolti dai volontari: dall’animazione per bambini e ragazzi, all’assistenza agli anziani, al servizio liturgico. Gli interlocutori sono i parroci del posto, che indicano cosa fare. In ascolto di questa gente che ha perso tutto. Tranne la voglia di raccontarsiLa tendopoli di San Demetrio, sulla salita che di fatto costituisce le ultimi propaggini del paese, è stata posta nel campo di calcio della Vestina. Dagli spalti si vede bene il Gran Sasso tra le due colline che sovrastano il paese. Una tendopoli che a quattro mesi dal terremoto vede diminuire i propri abitanti, in parte al mare, in parte altrove, in parte già rientrati nelle pochissime case agibili delle frazioni limitrofe. Le notizie della chiusura della tendopoli stessa, l’arrivo delle casette di legno, la speranza di avere un alloggio più stabile prima di un autunno che in questi luoghi ha il sapore già da ottobre del rigido inverno danno ai sandemetrani un motivo in più per continuare a vivere in una coabitazione che non sembra affatto facile. La partita che sembra giocarsi è quella di una vita che continua cercando la propria normalità. Nel tentativo di dimenticare. Nell’impossibilità di farlo. Nella determinazione di andare avanti e pensare ad un domani che sia migliore.

Storie, volti, sguardi, mani. Piccoli elementi, tratti del corpo, parole da ascoltare che rivelano tutta un’umanità, tutto un vissuto di persone che hanno perso molto, forse tutto. Tranne la voglia di raccontare, di raccontarsi. È anche questo il terremoto. Un continuo amplificarsi di sensazioni e percezioni: relazioni, conflitti, dinamiche di convivenza. Basta mezz’ora e si diventa fratelli tra volontari. È sufficiente un’ora soltanto e l’ascolto delle persone della tendopoli diviene accoglienza dell’altro, prossimità continua, responsabilità nel riportare una testimonianza. Si arriva con il desiderio di dare una mano. Si riparte con l’incredibile consapevolezza di avere soltanto ricevuto.

Berardo cammina lungo gli spalti dello stadio che ospita la tendopoli. «La mia casa è quella – e indica le tapparelle verdi – integra, ma inagibile. Classe E, la più a rischio. Non posso rientrare e mi resta soltanto di vederla così, da lontano. Dopo quattro mesi la ferita inizia a rimarginarsi. Ricostruiranno. Ma quando? Forse rivedrò casa mia tra 4 o 5 anni».

Giovanni pedala lungo la salita che porta alla tendopoli. I grandi occhiali coprono uno sguardo che interroga il proprio interlocutore. Una vita vissuta all’insegna del lavoro e della famiglia, un’infanzia segnata dall’assenza della madre e da quattro piccoli fratelli da crescere con un padre non sempre presente. L’emigrazione in Belgio, il lavoro nelle miniere, il rischio di ammalarsi ai polmoni. Giovanni racconta: «Ho fatto una vita di sacrifici, mi sono costruito la casa e l’ho comprata anche per entrambe le mie figlie. Il terremoto ha distrutto tutto quanto. Mi daranno una casetta, ma io rivoglio la mia casa». Lacrime amare scendono sul volto di Giovanni. «Eravamo troppo felici, avevamo troppo. Solo quando non hai salute e una casa ti rendi conto di quanto siano importanti». Ricordi, fotografie. Un volontario lo guarda negli occhi e accosta la sua mano al petto dell’anziano signore: «Giovanni, se tutti questi pensieri le danno soddisfazione, allora la sua casa è dentro al suo cuore». E Giovanni allora sorride.

Jacopo Masini