Vita Chiesa

Mons. Crociata a cappellani carceri: pastorale carceraria sia missione educativa

Domani, 23 ottobre, alle 12, il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, presiederà la celebrazione della Messa con i partecipanti al convegno. Nelle carceri italiane, annota monsignor Crociata nella sua relazione «Educare alla vita buona in Cristo: i volti nella giustizia», si vivono «gravi problematiche, prima fra tutte quella del sovraffollamento, che determina condizioni di vita disagiate e spesso ai limiti della sopportazione umana. Si ha l’impressione che la questione della condizione di vita dei detenuti» non «venga mai affrontata con la necessaria determinazione e progettualità». Eppure, chiarisce il segretario Cei, «non si tratta di persone ‘di serie B’». Di qui «il dovere primario, frutto del comando del Signore, di vivere la carità, in particolare verso i più deboli».

L’opera di assistenza ai detenuti, svolta dai cappellani e dai volontari, «si articola secondo i tre ambiti fondamentali di tutta l’azione della Chiesa»: il compito profetico, sacerdotale, regale, spiega mons. Crociata. Il primo è l’annuncio della parola di Dio, che presuppone «l’instaurazione di un sincero rapporto umano». Quindi la celebrazione dei sacramenti, in particolare penitenza ed eucaristia domenicale al cui riguardo «è centrale il compito insostituibile del cappellano, aiutato dai volontari». Terzo compito, la carità «da esercitare in innumerevoli forme e situazioni». Tre aspetti che «convergono nell’unica missione educativa, svolta dai cappellani, dai volontari e da quanti contribuiscono alla pastorale carceraria», mirante «a formare persone adulte e responsabili dal punto di vista umano e cristiano». L’educazione all’interno del carcere, il punto centrale della riflessione del segretario Cei, «integri il periodo di detenzione e la necessità di scontare la pena all’interno del cammino umano complessivo della persona». L’obiettivo della pastorale carceraria «sta dentro l’esigenza dell’integrazione di queste due prospettive, operazione che si riassume nella capacità di inserire, in modo costruttivo e positivo, l’errore commesso e il tempo di punizione nell’intero percorso della vita, sullo sfondo di una avvertita coscienza credente o di una apertura a essa».

In tale orizzonte, prosegue mons. Crociata, «sviluppo antropologico e vita di fede non sono dunque contrapposti né indipendenti, ma profondamente legati e interconnessi, così che dall’uno dipende anche l’altro», perché «educare è fare emergere ciò che di buono c’è nella persona». La pastorale carceraria, avverte, «richiede un’attenzione alle diverse situazioni di debolezza e di bisogno vissuto dalle varie tipologie di detenuti». Tra queste il caso «delle donne», specialmente quelle che sono madri, le carceri minorili «che, per la delicata missione di accompagnare e rieducare dei ragazzi, dovrebbero essere dotate di strutture e progetti più adeguati», la crescente presenza di «persone provenienti da paesi stranieri (ormai più del 35% del totale dei detenuti)», e di non cristiani, soprattutto musulmani, «ai quali si deve assicurare un’assistenza non inferiore a quella riservata ai battezzati». Al cappellano il compito di «prendersi a cuore non solo i singoli detenuti, ma tutta la pastorale carceraria nel suo insieme. Egli rappresenta il raccordo tra la pastorale carceraria e il cammino della Chiesa e della diocesi, al quale sempre deve fare riferimento».

Per mons. Crociata è quindi importante «stabilire un nesso più forte e stabile tra la pastorale ordinaria e quella carceraria», cosicché le parrocchie si ricordino delle persone detenute «e non dimentichino di visitarle», e i carcerati possano partecipare ad alcuni momenti della vita delle comunità. Compito della pastorale carceraria, infine, «richiamare, secondo le vie possibili e nei modi più consoni, la necessità da parte dei pubblici poteri di far sì che il carcere diventi un luogo realmente educativo e si realizzi ‘un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti umani’» come auspicato da Benedetto XVI nella «Caritas in veritate». Di qui la centralità anche del lavoro «all’interno del carcere o all’esterno del carcere», ma pure la capacità di sviluppare il desiderio di «riparazione». La pastorale carceraria, conclude mons. Crociata, non finisce nel luogo di pena: essa deve estendersi anche oltre il carcere, perché l’uscita «è un altro momento di grande difficoltà e incertezza». Occorre continuare a seguire chi lascia il penitenziario per facilitarne la ripresa della vita normale. Offrire «una visione di speranza», questo il monito conclusivo del presule.