Vita Chiesa

Papa Francesco: i pastori sono chiamati a servire i laici, non a «servirsi di loro

La lettera è frutto del suo incontro il 4 marzo scorso con i partecipanti alla plenaria dell’organismo che si è svolta sul tema «L’indispensabile impegno dei laici nella vita pubblica» dei Paesi latinoamericani.

Un pastore non si concepisce senza un gregge. Nel testo il Papa si sofferma, in modo particolare, sull’immagine del «Santo Popolo fedele di Dio» per riflettere sull’attività pubblica dei laici nel contesto latinoamericano. «Evocare il Santo Popolo fedele di Dio – spiega – è evocare l’orizzonte al quale siamo invitati a guardare e dal quale riflettere. È al Santo Popolo fedele di Dio che come pastori siamo continuamente invitati a guardare, proteggere, accompagnare, sostenere e servire. Un padre non concepisce se stesso senza i suoi figli. Può essere un ottimo lavoratore, professionista, marito, amico, ma ciò che lo fa padre ha un volto: sono i suoi figli. Lo stesso succede a noi, siamo pastori. Un pastore non si concepisce senza un gregge, che è chiamato a servire. Il pastore è pastore di un popolo, e il popolo lo si serve dal di dentro. Molte volte si va avanti aprendo la strada, altre si torna sui propri passi perché nessuno rimanga indietro, e non poche volte si sta nel mezzo per sentire bene il palpitare della gente».

 E l’ora dei laici? O l’orologio si è fermato? «Guardare al Santo Popolo fedele di Dio e sentirci parte integrale dello stesso – prosegue il Papa – ci posiziona nella vita, e pertanto nei temi che trattiamo, in maniera diversa. Questo ci aiuta a non cadere in riflessioni che possono, di per sé, esser molto buone, ma che finiscono con l’omologare la vita della nostra gente o con il teorizzare a tal punto che la speculazione finisce coll’uccidere l’azione». Nella lettera il Papa spiega: «Guardare continuamente al Popolo di Dio ci salva da certi nominalismi dichiarazionisti (slogan) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità. Per esempio, ricordo ora la famosa frase: ‘è l’ora dei laici’ ma sembra che l’orologio si sia fermato. Guardare al Popolo di Dio è ricordare che tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici». Infatti, «il primo sacramento, quello che sugella per sempre la nostra identità, e di cui dovremmo essere sempre orgogliosi, è il battesimo». È nel battesimo che affondano le radici della «nostra prima e fondamentale consacrazione»: «Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formiano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato».

La deformazione del clericalismo. Il clericalismo, secondo il Papa, è «frutto di un modo sbagliato di vivere l’ecclesiologia proposta dal Vaticano II» ed è «una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare». Il clericalismo, osserva ancora Francesco, «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato; trattandolo come ‘mandatario’ limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati».

La pastorale popolare. Papa Francesco ricorda, poi, «un fenomeno molto interessante che si è prodotto nella nostra America Latina»: la «pastorale popolare», «uno dei pochi spazi in cui il Popolo di Dio è stato libero dall’influenza del clericalismo»; «uno dei pochi spazi in cui il popolo (includendo i suoi pastori) e lo Spirito Santo si sono potuti incontrare senza il clericalismo che cerca di controllare e di frenare l’unzione di Dio sui suoi». Da qui l’invito: «Confidiamo nel nostro Popolo, nella sua memoria e nel suo ‘olfatto’, confidiamo che lo Spirito Santo agisce in e con esso, e che questo Spirito non è solo ‘proprietà’ della gerarchia ecclesiale».

«Non è mai il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti», ricorda Francesco nella lettera al cardinale Marc Ouellet. Il Papa spiega che «come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori». Per i pastori, osserva Francesco, «il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica» significa «cercare il modo per poter incoraggiare, accompagnare e stimolare tutti i tentativi e gli sforzi che oggi già si fanno per mantenere viva la speranza e la fede in un mondo pieno di contraddizioni, specialmente per i più poveri, specialmente con i più poveri». E ancora: «Significa, come pastori, impegnarci in mezzo al nostro popolo e, con il nostro popolo, sostenere la fede e la sua speranza. Aprendo porte, lavorando con lui, sognando con lui, riflettendo e soprattutto pregando con lui».

«Non si possono dare direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica», ribadisce Francesco. «Molte volte – scrive  – siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose ‘dei preti’, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi». Pertanto, osserva Francesco, «dobbiamo riconoscere che il laico per la sua realtà, per la sua identità, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica, perché partecipe di forme culturali che si generano costantemente, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede». E aggiunge: «È illogico, e persino impossibile, pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta. Al contrario, dobbiamo stare dalla parte della nostra gente, accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale. E questo discernendo con la nostra gente e mai per la nostra gente o senza la nostra gente. Ossia non uniformando».

I pastori sono a servizio del laicato. «I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro», ricorda  Francesco. Nella lettera al card. Ouellet il Papa si sofferma, tra l’altro, sull’«inculturazione» spiegando che «è un processo che noi pastori siamo chiamati a stimolare, incoraggiando la gente a vivere la propria fede dove sta e con chi sta». L’inculturazione, aggiunge, «è imparare a scoprire come una determinata porzione del popolo di oggi, nel qui e ora della storia, vive, celebra e annuncia la propria fede. Con un’identità particolare e in base ai problemi che deve affrontare, come pure con tutti i motivi che ha per rallegrarsi. L’inculturazione è un lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a ‘fabbricare mondi o spazi cristiani’». Ai pastori, prosegue Francesco, è chiesto di «custodire due memorie nel nostro popolo»: «La memoria di Gesù Cristo e la memoria dei nostri antenati». Anche perché «perdere la memoria è sradicarci dal luogo da cui veniamo e quindi non sapere neanche dove andiamo. Questo è fondamentale, quando sradichiamo un laico dalla sua fede, da quella delle sue origini; quando lo sradichiamo dal Santo Popolo fedele di Dio, lo sradichiamo dalla sua identità battesimale e così lo priviamo della grazia dello Spirito Santo. Lo stesso succede a noi quando ci sradichiamo come pastori dal nostro popolo, ci perdiamo». E conclude: «Il nostro ruolo, la nostra gioia, la gioia del pastore, sta proprio nell’aiutare e nello stimolare, come hanno fatto molti prima di noi, madri, nonne e padri, i veri protagonisti della storia. Non per una nostra concessione di buona volontà, ma per diritto e statuto proprio».