Vita Chiesa

Papa in Bangladesh: abbraccio pubblico e privato con i Rohingya. Preghiera ecumenica per la pace

Card. D’Rozario, «siamo il miglior esempio al mondo di armonia religiosa». Cita il dramma dei rohingya. «La accogliamo tra noi quale guida religiosa, che desidera compiere un pellegrinaggio all’anima del nostro popolo, quella dimora interiore di Dio che è amore, misericordioso e onnipotente». È il saluto del card. Patrick D’Rozario, arcivescovo di Dacca, al Papa, all’inizio dell’incontro interreligioso ed ecumenico nel giardino dell’arcivescovado. «Il Bangladesh è il miglior esempio al mondo di armonia religiosa», ha detto il cardinale citando le parole del card. Tauran: «Tale armonia è radicata nella nostra identità cultura, nella professione della nostra fede e nel rispetto per il credo degli altri. In un contesto multireligioso, multietnico e multiculturale noi viviamo in armonia e pace. Siamo fieri di custodire questa sacrosanta eredità nei nostri cuori e siamo profondamente addolorati ogni qualvolta viene usurpata o minacciate». Rozario ha citato in particolare il dramma dei rohingya, «che oggi sono rappresentati qui da un piccolo gruppo», e che al termine dell’incontro verranno abbracciati dal Papa.

Il Bangladesh, ha detto Rozario, vuole testimoniare la «ricchezza della nostra povertà», mentre il mondo «sta gradualmente perdendo i suoi veri ideali». «La buona notizia del Bangladesh – ha proseguito il porporato – è costituita dai valori evangelici vissuti dai poveri, in particolare; da ogni piccolo sforzo in favore della protezione dei bambini, dell’educazione per tutti, della promozione della donna; dalla capacità di resilienza della gente, che deve affrontare ogni genere di calamità provocata dai cambiamenti climatici; dal modello di sviluppo del Paese; dal progresso economico, politico e solidale. Andiamo avanti con la speranza di edificare l’umanità attraverso l’attenzione allo sviluppo integrale della persona, la cura della casa comune – questa nostra amata Patria – e tutti quei risultati materiali che conducono ad un avanzamento spirituale».

Grande Imam: «Il mondo ha bisogno di amore». «La compassione e l’amore sono ciò di cui il mondo ha più bisogno oggi». Ne è convinto Mawlana Farid Uddin Masud, Grand Imam e Mufti del Bangladesh, che ha salutato il Papa, durante l’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace a Dacca, a nome della comunità musulmana. «L’unico rimedio ai mali dell’odio, dell’invidia così come ai conflitti tra le nazioni, i gruppi umani e le identità religiose consiste nell’amore compassionevole predicato e praticato di grandi della terra». In questa prospettiva, l’imam ha lodato i «numerosi sforzi» che il Papa sta compiendo «per incoraggiare e promuovere l’umanità, alzando la voce in nome degli oppressi, senza alcuna distinzione di religione, casta e nazionalità. Ciò che fa lei è di grande ispirazione per noi tutti. In particolare, il suo fermo sostegno in favore dei rohingya condurrà a un esito positivo gli sforzi in corso per assicurare il rispetto dei loro diritti umani fondamentali».

Patriarca Buddisti: «Tolleranza zero verso chi crea disarmonia».«Non potrò mai dimenticare l’immagine di Vostra Santità mentre lava i piedi ai giovani rifugiati africani», ha detto Sua Santità Sanghanayaka Suddhananda Mahathero, patriarca dei buddisti del Bangladesh, salutando il Papa. L’esponente buddista ha citato anche l’altrettanto storica visita di Giovanni Paolo II in Bangladesh, nel 1986. Poi il riferimento alla sua esperienza personale: «Come monaco buddista ho dedicato tutta la mia esistenza al servizio dell’umanità nell’orfanatrofio di Dharmarajika, qui a Dacca. Nello svolgimento delle mie attività filantropiche sono stato largamente benedetto dall’aiuto di organizzazioni di ispirazione cristiana, così come prezioso è il sostegno di molte altre comunità sparse nel mondo». «L’armonia è un tratto costitutivo del Bangladesh», ha sottolineato Mahathero, ricordando che il primo Ministro, Sheikh Hasina, ha dichiarato «tolleranza zero» contro «ogni tentativo di creare disarmonia». «Noi, oggi, siamo qui riuniti per invocare all’unisono le benedizioni della pace e della fraternità per il nostro Paese». Poco prima, Swami Dhuruveshananda Adhyakska aveva portato il suo saluto al Papa a nome della comunità induista, sottolineando che «i nostri approcci religiosi possono essere differenti, ma l’obiettivo è lo stesso. Noi abbiamo il dovere di rimanere saldi negli ideali in cui crediamo, mostrando il debito di rispetto per quelli altrui. Del resto, questo è il messaggio fondamentale, valido per ogni religione: essere buoni e praticare il bene». E al dramma dei rohingya, molto presente nelle parole dei rappresentanti delle diverse comunità religiose del Bangladesh, ha fatto riferimento anche Anisuzzaman, professore emerito dell’Università di Dacca, salutando il Papa a nome della società civile. «Ogni giorno migliaia di persone, senza speranza, varcano i confini dl Bangladesh per poter sopravvivere». Di qui l’appello alla comunità internazionale, che, seguendo l’esempio di Francesco, «ha il grave dovere di intervenire perché cessino questi deplorevoli crimini che annullano la dignità umana». Infine, Tehophil Nokrek, di Caritas Bangladesh, ha letto un messaggio a nome della comunità cristiana. «Se oggi siamo qui assieme come membri e rappresentanti di diverse religioni e confessioni cristiane, lo dobbiamo a quella concordia e pace che è frutto della religiosità semplice della nostra gente, qualunque sia il credo che professa», ha detto Nokrek citando il vissuto dei ben 45 gruppi etnici del Bangladesh. «Questo spirito di accoglienza reciproca – ha proseguito – permette di instaurare rapporti fraterni tra i giovani delle nostre numerose istituzioni eduative, così come nei luoghi di cura per i malati e i bisognosi».

L’intervento di Papa Francesco. «Il nostro incontro, che riunisce i rappresentanti delle diverse comunità religiose di questo Paese, costituisce un momento molto significativo della mia visita in Bangladesh». Il Papa ha iniziato con queste parole l’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace nel giardino dell’arcivescovado di Dacca, al termine del quale il Papa saluterà 18 rohingya, provenienti dal grande campo profughi di Cox’s Bazaer, in rappresentanza dei 700mila profughi costretti a lasciare il Myanmar per le atrocità dell’esercito. «Ci siamo radunati per approfondire la nostra amicizia e per esprimere il comune desiderio del dono di una pace genuina e duratura», ha spiegato Francesco, salutando il card. Rozario «e quanti mi hanno accolto con calore a nome delle comunità musulmane, indù e buddiste e anche delle autorità civili. Sono grato al vescovo anglicano di Dhaka per la sua presenza, alle varie comunità cristiane e a tutti coloro che hanno contribuito a rendere possibile questa riunione». «Le parole che abbiamo ascoltato, ma anche i canti e le danze che hanno animato la nostra assemblea, ci hanno parlato in modo eloquente del desiderio di armonia, fraternità e pace contenuto negli insegnamenti delle religioni del mondo», ha proseguito il Papa: «Possa il nostro incontro di questo pomeriggio essere un chiaro segno degli sforzi dei leader e dei seguaci delle religioni presenti in questo Paese a vivere insieme nel rispetto reciproco e nella buona volontà. In Bangladesh, dove il diritto alla libertà religiosa è un principio fondamentale, questo impegno sia un richiamo rispettoso ma fermo a chi cercherà di fomentare divisione, odio e violenza in nome della religione».

Non basta la tolleranza per costruire un’autentica «cultura dell’incontro»: ci vuole «una apertura del cuore», fatta di «reciproca fiducia e comprensione», ha spiegato il Papa. «È un segno particolarmente confortante dei nostri tempi che i credenti e le persone di buona volontà si sentano sempre più chiamati a cooperare alla formazione di una cultura dell’incontro, del dialogo e della collaborazione al servizio della famiglia umana», l’elogio di Francesco, che ha spiegato come «ciò richiede più che una mera tolleranza. Ci stimola a tendere la mano all’altro in atteggiamento di reciproca fiducia e comprensione, per costruire un’unità che comprenda la diversità non come minaccia, ma come potenziale fonte di arricchimento e crescita. Ci esorta a coltivare una apertura del cuore, in modo da vedere gli altri come una via, non come un ostacolo». L’apertura del cuore, ha spiegato il Papa, «condizione per una cultura dell’incontro», «è una porta»: «Non è una teoria astratta, ma un’esperienza vissuta. Ci permette di intraprendere un dialogo di vita, non un semplice scambio di idee. Richiede buona volontà e accoglienza, ma non deve essere confusa con l’indifferenza o la reticenza nell’esprimere le nostre convinzioni più profonde. Impegnarsi fruttuosamente con l’altro significa condividere le nostre diverse identità religiose e culturali, ma sempre con umiltà, onestà e rispetto». L’apertura del cuore, nelle parole di Francesco, «è anche simile ad una scala che raggiunge l’Assoluto»: «Ricordando questa dimensione trascendente della nostra attività – ha spiegato il Papa – ci rendiamo conto della necessità di purificare i nostri cuori, in modo da poter vedere tutte le cose nella loro prospettiva più vera. Ad ogni passo la nostra visuale diventerà più chiara e riceveremo la forza per perseverare nell’impegno di comprendere e valorizzare gli altri e il loro punto di vista. In questo modo, troveremo la saggezza e la forza necessarie per tendere a tutti la mano dell’amicizia». L’apertura del cuore, infine, «è anche un cammino che conduce a ricercare la bontà, la giustizia e la solidarietà. Conduce a cercare il bene del nostro prossimo». «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene», l’imperativo di San Paolo affidato a tutti i presenti, come «atteggiamento che tutti noi possiamo imitare». «La sollecitudine religiosa per il bene del nostro prossimo, che scaturisce da un cuore aperto – l’altra immagine usata dal Papa – scorre come un grande fiume, irrigando le terre aride e deserte dell’odio, della corruzione, della povertà e della violenza che tanto danneggiano la vita umane, dividono le famiglie e sfigurano il dono della creazione».

«Uno spirito di apertura, accettazione e cooperazione tra i credenti non solo contribuisce a una cultura di armonia e di pace; esso ne è il cuore pulsante». Ne è convinto il Papa, che al termine dell’incontro ecumenico ed interreligioso a Dacca ha esclamato: «Quanto ha bisogno il mondo di questo cuore che batte con forza, per contrastare il virus della corruzione politica, le ideologie religiose distruttive, la tentazione di chiudere gli occhi di fronte alle necessità dei poveri, dei rifugiati, delle minoranze perseguitate e dei più vulnerabili! Quanta apertura è necessaria per accogliere le persone del nostro mondo, specialmente i giovani, che a volte si sentono soli e sconcertati nel ricercare il senso della vita!». «Le diverse comunità religiose del Bangladesh hanno abbracciato questa strada in modo particolare nell’impegno per la cura della terra, nostra casa comune, e nella risposta ai disastri naturali che hanno afflitto la nazione negli ultimi anni», il plauso di Francesco, che ha citato anche la «comune manifestazione di dolore, preghiera e solidarietà che ha accompagnato il tragico crollo del Rana Plaza, che rimane impresso nella mente di tutti. In queste diverse espressioni, vediamo quanto il cammino della bontà conduce alla cooperazione al servizio degli altri». «Vi ringrazio per i vostri sforzi nel promuovere la cultura dell’incontro – il congedo del Papa – e prego che, con la dimostrazione del comune impegno dei seguaci delle religioni a discernere il bene e a metterlo in pratica, aiuteremo tutti i credenti a crescere nella saggezza e nella santità, e a cooperare per costruire un mondo sempre più umano, unito e pacifico».

L’abbraccio ai Rohingya. Si è concluso con una dimostrazione concreta della «cultura dell’incontro», più volte auspicata dal Papa anche in questa occasione, l’incontro interreligioso ed eumenico nell’arcivescovado di Dacca. Dopo la preghiera ecumenica per la pace, Francesco ha infatti abbracciato 16 Rohingya (12 uomini, 4 donne tra cui 2 bambine), in rappresentanza dei 700mila profughi accolti nel campo di Cox’s Bazar. L’incontro e l’abbraccio tra il Papa e la minoranza musulmana del Myanmar si è svolto in due tempi: prima il saluto pubblico, in piedi davanti al palco papale allestito nella tensostruttura, poi in privato. A guidare, poco prima, la preghiera ecumenica per la pace è stato mons. Philip Sarkar, vescovo anglicano di Dacca. «Molte sono oggi le vittime del terrorismo, dei conflitti, dell’oppressione e dello sfruttamento», ha detto nelle parti centrale della preghiera: «Le minoranze religiose ed etniche continuano a soffrire per l’odio e le discriminazioni che subiscono in molti Paesi del mondo». «In modo molto speciale, vogliamo ricordare il vicino Myanmar», ha proseguito il vescovo anglicano: «Troppi sono coloro che, lasciando la propria patria per salvare la vita, sono costretti a vivere in condizioni disumane». Di qui l’appello affinché i capi delle nazioni «possano esercitar la loro autorità e il loro potere per servire i popoli con amore e dedizione». Non è mancato, nella preghiera ecumenica per la pace, un mea culpa sull’ambiente: «Stiamo distruggendo» la creazione «con la nostra avidità senza limiti, abbiamo abusato della nostra autorità e trascurato la nostra responsabilità». L’imperativo, quindi, è quello di «salvare le sorti del nostro Paese dagli effetti dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento ambientale». No, infine, all’«ipocrisia» e al «cieco orgoglio delle nostre identità religiose», con cui «fraintendiamo e odiamo le gente di altre fedi e sospettiamo gli uni degi altri».