Vita Chiesa

Sport: primo documento della Santa Sede: lo sport palestra di vita e di fede

Il primo documento della Santa Sede sullo sport, che «non ha la pretesa di rispondere a tutte le domande e alle sfide che oggi pone il mondo dello sport, ma intende ‘raccontare’ il rapporto tra lo sport e l’esperienza di fede e offrire una visione cristiana della pratica sportiva». Così il card. Kevin Farrell, prefetto del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, ha presentato in sala stampa vaticana il nuovo testo del suo dicastero, «Dare il meglio di sé», accompagnato da un messaggio del Papa. «Se è vero che esistono discorsi e messaggi di vari Pontefici rivolti al mondo dello sport e non pochi convegni sono stati organizzati dalla Santa Sede a riguardo, non esisteva ancora un documento che raccogliesse il pensiero e i desideri della Chiesa cattolica relativi alla pratica sportiva, sia quella svolta a livello professionale sia quella di tipo amatoriale», ha precisato il cardinale, spiegando che l’espressione «dare il meglio di sé», che dà il titolo al documento ed è stata usata varie volte da Francesco, «si applica sia nell’ambito dello sport sia in quello della fede. Da una parte, infatti, richiama lo sforzo, il sacrificio che uno sportivo deve assumere come costante della propria vita per ottenere una vittoria o semplicemente per arrivare alla meta. Ma anche nell’ambito della fede, siamo chiamati a dare il meglio di noi stessi per arrivare alla santità, che, come il Papa ha evidenziato nella Gaudete et exsultate, è una chiamata universale, rivolta a tutti, anche agli sportivi». Il nuovo testo, che contiene «molteplici citazioni del magistero sullo sport da Papa Pio X fino a Papa Francesco», ha «un carattere divulgativo e pastorale», ha detto Farrell: «Non è un testo per studiosi o ricercatori, ma è una riflessione sullo stato dello sport oggi a cui si affiancano indicazioni e suggerimenti che indubbiamente potranno risultare utili non solo alle Conferenze episcopali e alle diocesi per sviluppare una pastorale dello sport, ma anche ai club amatoriali, alle associazioni dilettantistiche e ai singoli atleti per riflettere sulla vita cristiana e sul modo di praticare lo sport».

Papa Francesco: c’è relazione tra sport e santità. «Dare il meglio di sé nello sport è anche una chiamata ad aspirare alla santità». A sostenerlo è il Papa, che nel messaggio inviato in occasione della pubblicazione del nuovo documento del Dicastero per i laici, la famiglia e la vita cita il recente incontro con i giovani in preparazione al Sinodo dei Vescovi, in cui ha manifestato «la convinzione che tutti i giovani lì presenti fisicamente o mediante le reti sociali avevano il desiderio e la speranza di dare il meglio di sé», facendo eco alla stessa espressione utilizzata nella recente esortazione apostolica Gaudete et exsultate. «Occorre approfondire la stretta relazione che esiste tra lo sport e la vita, che possano illuminarsi a vicenda, affinché lo sforzo di superarsi in una disciplina atletica serva anche da stimolo per migliorare sempre come persona in tutti gli aspetti della vita», la tesi di Francesco, secondo il quale «tale ricerca ci mette sulla strada che, con l’aiuto della grazia di Dio, ci può condurre a quella pienezza di vita che noi chiamiamo santità». «Lo sport è una ricchissima fonte di valori e virtù che ci aiutano a migliorare come persone», ribadisce il Papa: «Come l’atleta durante l’allenamento, la pratica sportiva ci aiuta a dare il meglio di noi stessi, a scoprire senza paura i nostri limiti, e a lottare per migliorare ogni giorno». Per lo sportivo cristiano, dunque, «la santità sarà vivere lo sport come un mezzo di incontro, di formazione della personalità, di testimonianza e di annuncio della gioia di essere cristiano con quelli che lo circondano».

Sì al «fair play». Coinvolgere anche i media, la finanza e la politica. Oggi c’è sempre più bisogno di «fair play» nello sport, per far sì che il gioco sia «pulito». È quanto si legge nel nuovo documento della Santa Sede. «Lo sport è fondato su un presupposto iniziale: la collaborazione e l’accordo sulle regole costitutive», si ricorda nel testo: «Lo sport è l’opposto della guerra, che si scatena quando le persone credono che la cooperazione non sia più possibile e quando viene a mancare l’accordo sulle regole fondamentali»: «Gli atleti – si fa notare nel documento – onorano il fair play non solo quando rispettano formalmente le regole, ma anche quando osservano la giustizia in rispetto dei propri avversari così che ciascun contendente possa impegnarsi liberamente nel gioco. Una cosa è rispettare le regole del gioco per evitare di essere sanzionati dall’arbitro o squalificati per una violazione del regolamento. Altra cosa è essere attenti e rispettosi dell’avversario e della sua libertà indipendentemente da qualsivoglia ricaduta regolamentare». «Fare questo comporta non usare strategia nascoste, come può essere il doping, o avvantaggiarsi scorrettamente sugli avversari», il monito del dicastero della Santa Sede, in cui si precisa che fair play «significa giocare rispettando gli avversari, le tradizioni dello sport, le regole e i regolamenti, anche quando non siamo controllati o visti».

«No al doping». Il problema del doping muove alla comprensione fondamentale dello sport», il grido d’allarme del documento: «Sfortunatamente oggi è praticato sia da singoli atleti, che da squadre e anche dagli Stati», la denuncia a proposito di una pratica che «non corrisponde ai valori di salute e di gioco leale» e «rappresenta un esempio chiarissimo di come la mentalità della ‘vittoria a tutti i costi’ abbia corrotto lo sport portandolo alla violazione delle sue regole costitutive». «Il fair play è messo in crisi da frodi e doping meccanico», l’analisi del contesto attuale: «Queste frodi possono essere messe in pratica dal singolo atleta, ma anche da un gruppo più ampio, con l’aiuto dei meccanici e sollecitato dai finanziatori o anche manipolato su larga scala». «Per combattere il doping, fisico e meccanico e sostenere il far play nelle competizioni sportive – la proposta – non basta appellarsi alla morale individuale degli atleti. Il problema del doping non può essere imputato soltanto al singolo sportivo, per quanto sia da biasimare. È un problema più complesso. È responsabilità delle organizzazioni sportive creare regole certe e condizioni organizzative di base per sostenere e motivare gli sportivi nella loro responsabilità e ridurre qualsiasi tentazione di ricorrere al doping. In un mondo globalizzato come lo sport, servono sforzi internazionali concreti e coordinati. Altri soggetti che esercitano un’influenza significativa sullo sport, come i media, la finanza e la politica, dovrebbero essere coinvolti». Anche gli spettatori, da parte loro, «devono tener presente quanto le loro continue aspettative di miglioramento delle performance e il desiderio di super-spettacolarizzazione degli eventi sportivi spingano gli attori dello sport a doparsi fisicamente o a fare un uso di doping meccanico».

Gli atleti non sono «merce». «Quando lo sport è praticato per vincere a tutti i costi, lo stesso sport è seriamente minacciato», si legge nel nuovo documento nella parte dedicata al rapporto tra lo sport e la corporeità. «Non è accettabile che gli atleti siano considerati come merce», il monito del testo, in cui si fa notare che «il desiderio di migliorare sempre più le prestazioni e a qualsiasi costo influenza i comportamenti e porta a serie conseguenze. Il criterio per cui qualsiasi scelta non è più vagliata secondo il metro della dignità della persona, ma piuttosto dalla misura dell’efficienza, può portare con sé rischi per la salute, propria e dei compagni». Il documento denuncia inoltre con forza tutte le «situazioni di abusi di bambini, siano essi fisici, sessuali o emotivi, da parte di allenatori, preparatori o altri adulti», definiti «un affronto alle giovai creature, fatte a immagine e somiglianza di Dio, e però un affronto direttamente a Dio». «Le istituzioni che finanziano programmi di sport per i giovani, inclusi quelli ad alto livello» per la Santa Sede «dovrebbero sviluppare linee programmatiche con l’aiuto di esperti che garantiscano la sicurezza dei bambini».

No a sport che «causano danni al corpo umano». Sotto accusa anche il processo di «automatizzazione degli atleti, da parte di genitori, allenatori e società sportive «interessati ad assicurarsi il successo e a soddisfare le speranze di medaglie, record, borse di studio scolastiche, contratti di sponsorizzazione e ricchezza». «Aberrazioni di questo tipo si possono trovare nelle competizioni di alto livello degli sport giovanili», l’analisi del contesto attuale, in cui «sta diventando sempre più normale per un ragazzo essere lasciato nelle mani di genitori, allenatori e dirigenti interessati unicamente alla specializzazione unidirezionale di un singolo talento». Ma il fisico di un ragazzo «non è in grado di sopportare un intero anno di allenamenti in uno sport», e «questa specializzazione precoce troppo spesso porta a infortuni di sovraccarico di lavoro». Il caso citato è quello delle ginnaste d’élite, il cui «prototipo del corpo ideale è cambiato nel corso degli anni, proponendo come modello quello di un esile fisico prepuberale». Ciò ha portato «in alcuni contesti ad allenare ragazze molto giovani per tutti i giorni della settimana e per un numero eccessivo di ore»: «Le ragazze in queste condizioni – il grido d’allarme – hanno sovente sviluppato l’angoscia di dover rimanere così magre tanto da sviluppare disturbi dell’alimentazione in percentuali molto più alte rispetto alla media della popolazione femminile in generale». «Gli sport che causano inevitabilmente dei danni al corpo umano non possono essere avallati», la denuncia del documento, che richiama anche al «ruolo dei genitori dei giovani atleti in tutti gli sport». In alcuni sport, informa il dicastero vaticano, «la pratica produce effetti dannosi sul corpo compreso il cervello, ed è fondamentale che in questi casi tutti i soggetti sociali prendano posizione al riguardo e riportino la dignità della persona e il suo benessere al primo posto».

No a corruzione, scommesse sportive e «violenza sia verbale che fisica». «Non meno del doping, la corruzione può portare lo sport alla rovina», perché «sfrutta il senso di competizione dei giocatori e degli spettatori, che vengono deliberatamente truffati e ingannati». Ne è convinto il Dicastero per i laici, la famiglia e la vita, che nella parte finale del documento «Dare il meglio di sé» fa notare che «la corruzione non riguarda soltanto un singolo evento sportivo, ma è una piaga che può diffondersi anche alle politiche sportive». «Le scelte riguardanti il mondo sportivo sono ormai decise da attori esterni ad esso per interessi di carattere finanziario o politico», la denuncia: «Ugualmente riprovevole è qualsiasi tipo di corruzione che riguarda le scommesse sportive». «Se innumerevoli sportivi o appassionati sono ingannati soltanto perché pochi altri possano arricchirsi a dismisura, anche questo minaccia l’integrità dello sport», si legge ancora nel documento: «Come per il doping, tutti i soggetti interessati allo sport devono avere questa consapevolezza, così come le organizzazioni sportive, le quali devono mettere in atto regole concrete e trasparenti per evitare che i valori dello sport vengano calpestati».

Le responsabilità dei tifosi. Non mancano le responsabilità assegnate a tifosi e spettatori: «Il pubblico durante le attività sportive e le gare guarda e tifa tutto insieme, come fosse un corpo unico. Questo sentimento condiviso, trasversale alle generazioni, al sesso, alle razze, alla fede religiosa, è una fonte fantastica di gioia e bellezza. I tifosi sono una comunità unita sia quando la loro squadra vince, sia quando perde. Sostengono i propri giocatori e rispettano sia i giocatori e i tifosi avversari che gli arbitri, con fair play reciproco. Ci sono momenti, manifestazioni, atteggiamenti che ci rendono consapevoli della gioia, della forza e del significato di uno sport armonioso e equilibrato». Tuttavia, «il ruolo del pubblico nello sport può essere ambiguo», la tesi del testo: «In alcuni casi, gli spettatori insultano i giocatori avversari, i loro tifosi e gli arbitri. Questo comportamento può degenerare nella violenza, sia verbale (con cori carichi di odio) che fisica». «Gli scontri tra tifoserie rompono il fair play che dovrebbe regnare durante qualsiasi manifestazione sportiva», il monito: «Un’eccessiva identificazione con un atleta o una squadra può alzare ulteriormente la tensione tra gruppi di differenti culture, nazionalità o religioni. Qualche volta un tifoso può anche utilizzare lo sport per aizzare al razzismo o a ideologie estremiste. Gli spettatori che non hanno rispetto per gli atleti a volte li attaccano anche fisicamente o continuano a insultarli e denigrarli. In casi di sport di base, questa mancanza di rispetto verso gli atleti a volte avviene anche da parte di spettatori appartenenti alla loro stessa tifoseria». «Le squadre, le associazioni e le federazioni sportive, sia nelle scuole che nello sport professionistico e di vertice, hanno la responsabilità di assicurare che il comportamento degli spettatori rispetti la dignità di tutte le persone che partecipano o assistono a un evento sportivo», l’invito.