Vita Chiesa

Sudan, la Chiesa che resiste

di Riccardo BigiHa un bel sorriso Gabriel Zubeir Wako, arcivescovo di Khartoum. Uno di quei sorrisi in cui leggi la pace interiore di chi riesce a mantenersi sereno anche nella sofferenza. Parla bene l’italiano, che ha imparato a Roma dove ha studiato teologia. Lo incontriamo a Firenze dove si è fermato per alcuni incontri organizzati dai padri Comboniani, prima di raggiungere Roma per il «trittico» degli appuntamenti vaticani: i 25 anni di pontificato di Giovanni Paolo II, la beatificazione di Madre Teresa, il Concistoro durante il quale sarà creato cardinale.

Il suo viso si illumina di gioia, quando gli chiedono di parlare dei due regali che il Papa ha fatto alla sua Chiesa. Il primo, il più grande, è la canonizzazione di Daniele Comboni. «L’Africa aveva un grande bisogno di Comboni santo», spiega. Adesso si potrà pregare con devozione ancora maggiore il missionario che, per primo, capì che l’unico modo per salvare l’Africa era restituirla agli africani. «Il ricordo di Comboni è ancora vivo – afferma – nel suo nome sono nate chiese, scuole, ospedali. Il suo contributo è stato fondamentale per dare dignità e speranza alle popolazioni africane oppresse dalla schiavitù e dal colonialismo».

L’altro regalo è la sua nomina a cardinale: Zubeir Wako, primo vescovo sudanese a cui è stata affidata, nel 1979, la diocesi di Khartoum che fu proprio quella di Comboni, sarà adesso il primo cardinale nella storia del Sudan. «Un riconoscimento – sottolinea – che è importante soprattutto per i cattolici del mio paese, che vivono con coraggio la loro fede in una situazione di grandi difficoltà. Anche il Governo mi ha fatto gli auguri, spero che sia il segnale dell’inizio di rapporti più facili».Quando deve parlare della situazione del Sudan, monsignor Zubeir si fa serio. E prima di rispondere alla domanda resta qualche attimo in silenzio, come se dovesse pesare le parole. «Dopo venti anni di guerra, stiamo vivendo un momento relativamente tranquillo, e sembra che sia vicina la firma del trattato di pace tra il governo e i guerriglieri.

Il rischio però è che sia soltanto una tregua temporanea: per farla diventare pace vera bisogna lavorare sulla strada della riconciliazione. La guerra ha lasciato ferite enormi: servirà uno sforzo spirituale e umano per guardare al futuro con fiducia». Uno dei primi problemi da affrontare è quello dei profughi e dei rifugiati: intorno alla capitale Khartoum, nel nord del paese, ce ne sono oltre due milioni venuti dalle zone più povere del sud. Il problema adesso è creare le condizioni per un loro ritorno a casa.

Gli scontri di questi anni hanno visto l’avanzare nel nord del paese, abitato in gran parte da arabi, dell’idea fondamentalista di far diventare il Sudan uno stato con una sola religione, l’Islam, e una sola lingua, l’arabo. Un tentativo che ha trovato, nel sud del Sudan, l’opposizione delle popolazioni indigene, a maggioranza cristiana, e lo scatenarsi di una vera e propria guerriglia. «La Chiesa sta nel mezzo – spiega mons. Zubeir – e cerca di preparare la gente perché possa entrare nella pace con cuore pacifico».

Tra i cristiani in questi anni non sono mancati i martiri, le persone uccise o torturate, i sacerdoti imprigionati, le chiese e le scuole distrutte e caparbiamente ricostruite. La fede cristiana sta resistendo, la Chiesa continua a svolgere la sua opera ma finora è stato come costruire castelli sulla sabbia, non si sa se domani si troverà in piedi quello che si è edificato oggi. A livello di popolazione i rapporti sono più facili, c’è rispetto reciproco. Ma evidentemente qualcuno non accetta la presenza organizzata della Chiesa, c’è il timore che possa rappresentare un pericolo dal punto di vista politico: «A noi invece interessa soltanto vivere la nostra fede e aiutare, attraverso le scuole, la promozione umana della nostra gente. Speriamo che insieme alla pace arrivi finalmente la riconciliazione e la possibilità, per tutti, di vivere insieme con serenità. Quando venne il Papa a Khartoum, nel 1993, fu un momento di grande speranza. Anche il Giubileo del Duemila doveva essere, nelle nostre intenzioni, un tempo di riconciliazione e perdono reciproco, ma i tanti semi gettati non hanno ancora dato frutti significativi. Speriamo che adesso sia veramente l’occasione giusta».