Vita Chiesa

Un gesto legittimo ma anche rivoluzionario

La rinuncia di Benedetto XVI al ministero petrino ha suscitato, com’era prevedibile, sorpresa e stupore. Si tratta, in effetti, di un atto che è insieme rivoluzionario e legittimo; questo non è soltanto un ossimoro (cioè l’accostamento di parole che esprimono concetti contrari), perché la Chiesa cattolica da duemila anni, con la sua storia, la sua dottrina e la sua legislazione, ci ha abituati o ci dovrebbe aver abituati alla circostanza che è possibile conciliare quegli elementi che sembrano opposti.

Per chi si occupa di diritto canonico l’abdicazione del Papa rientra nella categoria della rinuncia all’ufficio ecclesiastico. Quest’ultimo è un incarico, nell’accezione più vasta possibile, costituito stabilmente o per disposizione divina, cioè direttamente collegata a Gesù Cristo come, ad esempio, l’ufficio primaziale del Romano Pontefice e l’ufficio episcopale;  o ecclesiastica, collegata invece a coloro che Egli ha posto a capo della Chiesa, come ad esempio, l’ufficio parrocchiale; escludendo con ciò stesso la possibilità di costituzione da parte dell’autorità civile. La rinuncia può essere definita l’atto con cui il titolare dà le dimissioni dall’ufficio che ancora detiene. Due sono le condizioni per rinunciare: l’uso di ragione, per cui chi rinuncia deve essere responsabile dei propri atti e compiere così un vero atto umano e la giusta causa, commisurata in genere secondo il fine spirituale proprio di ogni ufficio ecclesiastico.

Anticamente le cause per la rinuncia all’ufficio venivano compendiate nel sommario contenuto in una lettera decretale di Papa Innocenzo III inviata, nel 1206, al vescovo di Cagliari, che così diceva: «Debilis, ignarus, male conscius, irregularis, quem mala plebs odit, dans scandala cedere potest», quindi l’infermità di mente o di corpo, la mancanza della scienza debita, la coscienza cattiva del crimine commesso, l’irregolarità, l’odio che proviene dai maligni. La rinuncia, di solito, per la sua validità richiede l’accettazione da parte dell’autorità ecclesiastica competente, questo, tuttavia, non si applica per il Pontefice la cui rinuncia non dev’essere accettata da nessuno, basta, per essere valida, che sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, com’è accaduto con Benedetto XVI.

Le regole canoniche sull’abdicazione papale furono emanate da Bonifacio VIII che le inserì nella collezione delle sue Decretali, denominata «Liber Sextus», promulgata nel 1298; questa collezione, insieme ad altre, venne poi a formare il «Corpus iuris canonici». Bonifacio VIII aveva stabilito che quando il Romano Pontefice si rende conto di essere insufficiente a reggere la Chiesa universale («se insufficientem agnoscit ad regendam universalem ecclesiam») e a sopportare gli onori del sommo pontificato («summi pontificatus onera supportanda») poteva rinunciare al papato e ai suoi oneri e onori («renunciare valeat papatui eiusque oneri et honori»).

Bonifacio VIII dopo la vicenda dell’abdicazione di Celestino V, che era avvenuta davanti al Collegio dei Cardinali, volle, dunque, che l’istituto della rinuncia all’ufficio papale entrasse, a pieno titolo, nell’ordinamento giuridico della Chiesa. E così è rimasto. Infatti nel primo Codice di Diritto Canonico, promulgato nel 1917, al can. 221 veniva ribadita la disposizione di Bonifacio VIII precisando che, per la valida rinuncia del Romano Pontefice, non era necessaria l’accettazione né dei Cardinali né di altri.

Si può notare che nel 1870, durante il Concilio Vaticano I, fu approvata la Costituzione «Pastor Aeternus» nella quale, sviluppando quanto già affermato nel Concilio Fiorentino del 1439, si proclamava l’infallibilità pontificia in materia di fede o di costumi e si dichiarava la potestà ordinaria di giurisdizione del papa sulla Chiesa e su ogni e singolo fedele. Queste ulteriori determinazioni dogmatiche sul ministero petrino non intaccarono minimamente, come si vede nel Codice del 1917, la volontà di confermare quanto previsto da Bonifacio VIII circa l’abdicazione del Papa. Anche il vigente Codice di Diritto Canonico, promulgato nel 1983, che ha sostituito quello del 1917, al can. 332 § 2 riporta la norma sulla rinuncia all’ufficio del Romano Pontefice. Pure il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali cattoliche, pubblicato nel 1990, al can.44 § 2 contiene la medesima disposizione.

Nella legislazione canonica, dunque, sono due i modi per cui la Sede Apostolica diventa vacante: per morte o per rinuncia. Il governo della Chiesa universale durante la vacanza della Sede Apostolica e l’elezione del Romano Pontefice, sono stati sempre oggetto, nel corso dei secoli, dell’attenta considerazione dei Papi che hanno emanato appropriate regole. L’ultima, in ordine di tempo, è la Costituzione Apostolica «Universi Dominici Gregis» pubblicata da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996. In questa legge Giovanni Paolo II ha tenuto conto del complesso normativo che, su questa delicatissima materia, era stato predisposto dai suoi più vicini predecessori: San Pio X, Pio XI, Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI. Giovanni Paolo II nel preambolo della «Universi Dominici Gregis» rammenta il dovere di regolamentare l’elezione alla Sede Romana «per qualsiasi motivo vacante».

Sulla base di una consolidata tradizione giuridica si determina poi che il Collegio dei Cardinali, durante la Sede Apostolica vacante, non ha nessuna potestà o giurisdizione sulle questioni spettanti al Sommo Pontefice «mentre era in vita o nell’esercizio delle funzioni del suo ufficio»; al Collegio cardinalizio è affidato il governo della Chiesa solamente per il disbrigo degli affari ordinari e per la preparazione di quanto è necessario per l’elezione del nuovo Pontefice. Si stabilisce che il diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente ai cardinali di Santa Romana Chiesa, ad eccezione di quelli che prima del giorno della morte del Sommo Pontefice  «o del giorno in cui la Sede Apostolica resti vacante», abbiano già compiuto l’80° anno di età. Il Conclave deve cominciare, al massimo, entro venti giorni dall’inizio della Sede Vacante, e si deve svolgere nel territorio della Città del Vaticano.

Giovanni Paolo II ha abolito l’elezione «per acclamazione» e quella «per compromesso» (cioè delegare l’elezione, col consenso di tutti gli elettori, ad un gruppo ristretto di cardinali) decidendo che l’elezione del Pontefice sarà soltanto «per scrutinio», con i due terzi dei suffragi computati sulla totalità degli elettori presenti.

Giovanni Paolo II aveva  previsto la possibilità che, dopo ventuno scrutini, i cardinali a maggioranza assoluta potevano optare per ridurre il quorum dai due terzi alla metà più uno o al ballottaggio tra due nomi. Ma su questo punto Benedetto XVI  con una piccola ma significativa modifica (motu proprio del 26 giugno 2007) ha statuito che la maggioranza deve rimanere sempre dei due terzi.

Giovanni Paolo II scrive: «Con la stessa insistenza dei miei predecessori, esorto vivamente i Cardinali elettori a non lasciarsi guidare, nell’eleggere il Pontefice, da simpatia o avversione, o influenzare dal favore o dai personali rapporti verso qualcuno, o spingere dall’intervento di persone autorevoli o di gruppi di pressione, o dalla suggestione dei mezzi della comunicazione sociale, da violenza, da timore o da ricerca della popolarità. Ma, avendo dinanzi agli occhi unicamente la gloria di Dio ed il bene della Chiesa, dopo aver implorato il divino aiuto, diano il loro voto a colui che avranno giudicato idoneo più degli altri a reggere con frutto e utilità la Chiesa universale».

La rinuncia di Benedetto XVI all’ufficio del Romano Pontefice è un gesto straordinario, se non altro perché avviene dopo oltre sette secoli dal decreto di Bonifacio VIII, e ci induce, ancora una volta, a riflettere e a pregare per il ministero del Pastore dell’intero gregge del Signore che è il Vescovo della Chiesa di Roma, nella quale il Beato Apostolo Pietro rese a Cristo col martirio la suprema testimonianza del sangue. La storia del Popolo di Dio continua, perché «semper habemus papam».