Arte & Mostre

Facciata di S. Maria del Fiore, una querelle lunga un secolo

di Francesco Gurrieri

Il problema del completamento della facciata di S. Maria del Fiore a Firenze coincide col dibattito sull’idea di «restauro» nell’Europa del XIX secolo. E siccome il nostro evento va considerato – more solito – una miscela di cultura e di politica, lasciando la seconda ad altri, è opportuno accennare alla prima.

Se il dibattito ottocentesco, con non poche contraddizioni, si polarizzerà sulle due figure maggiori – Eugène Viollet-le-Duc e John Ruskin, vanno pur ricordati i pròdromi culturali che maturavano per l’Europa.

Tutto ruoterà, alla fine, sul concetto di «unità stilistica», così che il restauro sarà concepito (pur con la riserva ruskiniana) come «restituzione stilistica».

In Francia, già dal 1830, si postula l’ineludibile interesse sullo stato di degrado dei monumenti; sarà il Vitet a delineare ed assumere la figura dell’«Inspecteur genéral des Monuments Historiques» che avrebbe portato all’Architect en chef dell’attualità. Così che , il dialogo Vitet – Mérimée si fortificherà, consegnandosi alle caustiche polemiche di Victor Hugo, ma soprattutto alla forte teorizzazione di Viollet-le -Duc, secondo il quale il «criterio analogico» doveva guidare l’intervento, arrivando a definire – nella voce del suo «Dictionaire raisonné de l’architecture française» – che «Restaurare un edificio non è conservarlo, ripararlo o rifarlo, è ristabilirlo in uno stato di completezza che può non essere mai esistito in un determinato momento».

In Germania, riandando alle suggestioni storiche di Goethe, che scrive il suo inno all’architettura gotica nel suo «Von deutscher Baukunst» («Sull’architettura tedesca»), farà seguito Auguste Reichensperger che affermerà (a proposito del Duomo di Colonia): «Noi dobbiamo rigettare ogni pseudoclassicismo e ritornare al gotico, nostra gloriosa arte nazionale».

Ma è in Gran Bretagna che il confronto sull’idea di restauro ha i suoi primi scossoni e i suoi primi aggiustamenti concettuali.

John Ruskin, che incoraggerà lo stile gotico per i nuovi edifici, sarà contrario ad ogni integrazione per i restauri; anzi, sarà contrario ad ogni intervento di restauro, postulando la rigida conservazione dello «stato di fatto» come unica strada rispettosa verso il patrimonio monumentale ereditato: un atteggiamento apodittico applicabile all’archeologia, ma assai meno agli edifici abitati e «in servizio». Ma Ruskin fu studiato ed amato soprattutto per essere stato l’apostolo della bellezza, il conoscitore profondo del patrimonio artistico e del paesaggio, tanto che la sua dottrina divenne imprescindibile per la cultura della fine dell’ottocento. «Mornings in Florence» – le sue «Mattinate fiorentine» – furono il viatico che accompagnò più generazioni del mondo anglosassone alla confidenza con l’arte fiorentina.

Neogotico e romanticismo La vicenda della facciata della cattedrale fiorentina può essere riguardata non solo nelle pertinenze della storia dell’architettura, ma in un ambito di costume civile e di prassi ancora estremamente attuali.

Voglio dire che la «ragion di stato», passando attraverso gli accomodamenti delle commissioni giudicatrici, da sempre, ci ha dato veri e propri «pastiches» piuttosto che convincenti immagini artistiche.

Così che la neogotica facciata di Santa Maria del Fiore, diluita e liquidata la polemica che ne accompagnò la costruzione, consacrata ormai nella iconografia della manualistica corrente, può essere spunto per una lettura che, superando le maglie di un filologismo fine a se stesso, torna a riproporre l’importanza delle motivazioni culturali, sociali e politiche.

Non si può infatti prescindere dalle condizioni del «gothic revival» di Walpole e dalla diffusione che il movimento ebbe in architettura, almeno nell’area europea.

Così come non si può prescindere dall’influenza che la gestione politica ebbe sui tempi e sui modi della vicenda; da Leopoldo II alla raggiunta unità nazionale, di cui Firenze fu capitale provvisoria, e dunque dal clima di «grands travaux» che in quegli anni vi si respirava. Neo-gotico e romanticismo trovavano insomma i loro teorici e con questi molti punti di identificazione.

Il progetto arnolfiano Il problema della facciata della cattedrale fiorentina trova la sua originaria matrice nel progetto arnolfiano per la «rinnovazione di Santa Reparata».

In estrema sintesi, questi furono i passaggi che, da Arnolfo e Giotto, ci conducono alla querelle ottocentesca fra mono e tricuspidofili:

1491, concorso a inviti. Concorrono Giulino da Sangallo, Antonio del Pollaiolo, i da Maiano, Verrocchio, il Cronaca, Vittorio Ghiberti. Ma «non incontrandosi danno alcuno a differire il problema», non se ne fece di nulla.

1586, si distrugge la parte di facciata ancora in opera (rilievo del Poccetti).

1589, nozze di Ferdinando I e Cristina di Lorena. Si realizza una facciata su tela incaricando il Paggi, il Passignano, lo Zuccari.

1634, concorso bandito da Ferdinando II , con la partecipazione del Giambologna, Buontalenti, Cigoli, Giovanni dei Medici, Gherardo Silvani, Coccapani, Passignano, Baccio del Bianco.

1661, per le nozze di Cosimo III con Maria Luisa d’Orlèans si ridipinge la facciata su tela.

1688, per le nozze di Ferdinando con Violante di Baviera, si intonaca la facciata e si fa dipingere a Ercole Graziani.

Questi, in sintesi, i precedenti storici, culturali e civili, che precedettero la vicenda ottocentesca.

Il disegno dell’architetto Silvestri Le proposte di revival neo-gotico che si concluderanno con la realizzazione dell’attuale facciata, trovano la loro matrice in un disegno che l’architetto Silvestri pubblicò circa il 1833 e che rimise subito in moto, dopo una silenziosa pausa di quasi un secolo e mezzo, l’antica contesa artistica. Poco più tardi, circa il 1840, fu Niccolò Matas (l’architetto che avrebbe dato soluzione alla facciata della basilica di Santa Croce) che ripropose decisamente il problema con un progetto dipinto a olio per l’ultimazione del Duomo. Si innescava così una estesa contesa pubblicistica e saggistica che doveva rilevare e diffondere il complesso divenire del problema; intanto, fu lo stesso Matas a rielaborare quella sua prima proposta a seguito delle osservazioni dei «professori» Silvestri, Salucci e Manetti.

Altri, volontariamente, si collocarono nella vicenda: si trattava di un episodio troppo importante per non implicarvisi, almeno per qualche brandello di personale pubblicità. Così si ebbero presto altre proposte, e fra queste quella Falcini-Müller, che fu forse la capostipite del filone «tricuspidale».

Peraltro, la pubblica opinione, in queste occasioni trova sempre un gruppo di uomini e di cavalieri dabbene per patrocinare le iniziative: nacque così l’«Associazione fiorentina» per la facciata del Duomo (agosto 1858), con a capo, naturalmente, il principe Ferdinando di Lorena; ma di lì a poco, il sopraggiungere del ’61 provocò – e come poteva non accadere – grazie anche all’impegno del barone Ricasoli, la naturale metamorfosi dell’Associazione fiorentina in ‘Associazione italiana’ e l’altrettanto naturale avvicendamento alla presidenza di S.A.R. Il principe di Carignano. Lo Stato unitario si sostituiva a Granducato.

Accantonata dunque la proposta Matas, il cui maggior difetto era forse quello di aver avuto i natali in tempi di Granducato e dunque «reazionaria» si provvide ad un concorso nazionale che si concluse con un nulla di fatto, cioè ad una assegnazione di soli secondi premi e di menzioni onorevoli la cui piazza d’onore toccò all’architetto e conte Carlo Ceppi di Torino. Seguì una specie di licitazione culturale (1864); per la quale alcuni artisti (scelti con un criterio il cui attributo qualificante era solo quello di esser proprio all’Associazione italiana) si impegnarono – dietro l’assicurazione di 2500 lire – a rielaborare le loro proposte: queste furono giudicate da Coriolano Monti, Giovanni Duprè, Ernesto Förster, G. D. Malvezzi e Odoardo Van Der-Nüll, assenti Bertini e Viollet-le-Duc; Massimo D’Azeglio, assente, fece sapere di rimettersi alle decisioni della maggioranza. I progetti esaminati furono questa volta sedici (ai dieci invitati dalla Deputazione, se ne aggiunsero sei, fra cui gli architetti Ceppi, Maiorfi, Petersen e Mospignotti) e cultura del Giurì volle che si operasse una prima suddivisione tipologica così articolata:

a) «a fastigi», ove le linee del tetto erano più o meno mantenute;

b) «a linee miste», ove si mantenevano le linee del tetto limitatamente alla navata centrale, mentre le navi laterali erano concluse da determinazioni orizzontali;

c) «a facciata chiusa orizzontalmente», su tutte e tre le navate;

d) «a sistema piramidale», sopra ciascuno dei tre spartimenti (le tre navi) di facciata.

Così ci furono quattro vincitori, uno per ciascuna categoria tipologica, e, rispettivamente: Guglielmo Peterson di Copenhagen, Maiorfi di Firenze, Scala di Venezia, De Fabris.

Il voto definitivo comunque, sia pure a maggioranza relativa, indicò il De Fabris, al quale però furono poste alcune raccomandazioni che, nella sostanza, finivano per modificare radicalmente il progetto.

Nell’ottobre 1865 furono fatte alcune pressioni alla Deputazione promotrice perché si dichiarasse a quale «sistema formale» (leggi mono o tricuspidofili) si dovesse informare la proposta definitiva: ancora una volta la risposta fu che gli artisti avrebbero potuto ripresentare i disegni «con piena libertà di attenersi al sistema architettonico che più preferivano».

Così tra la fine del ’66 e i primi del ’67 si ricomponeva l’ennesima commissione che avrebbe giudicato quei disegni esposti al pubblico per quindici giorni: ne facevano parte il Selvatico, Van Der-Nüll, Förster, Malvezzi, Della Porta, Semper, Monti e Bertini. Qualcuno sostiene che quella commissione fosse fatta «ad hoc» per la proposta defabrisiana. Certo è che nella risoluzione finale (cinque voti favorevoli e tre contrari) dovette aver peso l’assenza di Viollet-le-Duc e la nomina del marchese Selvatico – noto tricuspidofilo – in sostituzione del Santarelli. In sostanza, tutti i commissari avevano già fatta pubblica professione delle loro preferenze, tanto che l’operazione si risolse nella copertura formale di un esito già scontato.

Si arriva così alla «notificazione» del 21 giugno 1871 con la quale si avvertiva dell’esposizione del disegno della facciata del Duomo, in «grandi proporzioni e a colori», e del successivo ed immediato inizio dei lavori.

Il 24 giugno del ’71, per la festa del patrono della città (anche quest’ultimo tributo formale era così strumentalmente pagato), si rizzavano i ponteggi alla cattedrale. Firenze aveva finalmente chiuso un’altra partita con la sua cultura.

Firenze aveva finalmente chiuso un’altra partita con la sua cultura. Infine, l’incarico al De Fabris (che morì nel giugno 1883) a cui seguì il Del Moro, anch’egli di fede tricuspidofila, che non mancò di introdurre ancora alcune sue varianti. Ma alla fine, tutto ciò non ci impedisce l’affetto e l’ammirazione per la nostra facciata di Santa Maria del Fiore , importante esempio di integrazione , caratterizzata da quel policromismo marmoreo che la fa ancora unica nell’architettura europea del XIX secolo.