Arte & Mostre

Il Beato Angelico fra arte e storia

di Piero AdornoGuido di Pietro, nato fra la fine del ‘300 e gli inizi del ‘400 a Vicchio di Mugello, morto a Roma nel 1455, entrato a far parte dell’ordine domenicano con il nome di «Fra Giovanni da Fiesole», è figura fondamentale nella pittura italiana del primo Rinascimento. Angelico venne definito per la prima volta nel 1469 da Domenico da Corella e successivamente, nel 1481, da Cristoforo Landino, a causa della sua bontà, della sua dedizione alla religione, e, probabilmente, per le sue pitture tutte tese alla rappresentazione di argomenti sacri. Più tardi venne chiamato anche «Beato», senza che la Chiesa lo avesse riconosciuto tale fino al 3 ottobre 1982. Ne ricorre dunque il ventesimo anniversario. Il soprannome, così preciso nell’indicare un suo costume morale e una sua espressione artistica, ha contribuito a far nascere un equivoco, legato alla tradizionale e ormai superata contrapposizione del Rinascimento al Medioevo, questo inteso come affermazione del divino, quello dell’umano: se il pittore esprime una così profonda religiosità da essere universalmente chiamato «beato» e «angelico», come sarebbe possibile riconoscerlo nell’umanesimo rinascimentale? In particolare la critica romantica lo vedeva come ultimo erede della tradizione giottesca e antagonista di Masaccio. Anche una cinquantina di anni fa veniva definito un «reazionario».

Evidentemente non ci si era resi conto di ciò che è veramente il rinascimento fiorentino nei primi decenni del ‘400: l’uomo è considerato copula mundi (come affermerà successivamente Leonardo) non perché si neghi Dio, ma perché egli non può conoscere ciò che lo circonda se non attraverso la propria ragione. Poiché Dio ha creato l’universo mediante leggi matematiche (eterne e immutabili), è mediante la matematica – che è la logica – che l’uomo può conoscere il mondo, esserne il centro.

Di qui l’importanza della prospettiva rinascimentale geometrico-matematica che incatena tutta la realtà a una serie di linee convergenti in un punto unico, il «punto di fuga», posto davanti all’occhio dell’uomo e che gli permette di vedere gli oggetti nelle tre dimensioni, di misurarne le distanze reciproche, di «capirli». Sono questi gli elementi che l’Angelico conquista gradualmente e che lo collocano fra i primi artisti del Rinascimento fiorentino. Egli comprende i problemi dell’uomo in terra, ma li risolve con la fede nella giustizia divina. Pone l’uomo al centro della sua attenzione, sa che l’uomo può giungere a Dio comprendendo, con la ragione prospettica, il creato; ma sa anche che questa comprensione è voluta da Dio stesso: perciò nelle sue pitture il dramma non esplode mai e anche gli episodi più dolorosi (le Crocifissioni, per esempio) vengono contemplati da lui con la serenità che gli proviene dalla sicurezza che tutto è voluto, tutto è finalizzato.

Fra le molte opere dell’Angelico, tutte di argomento sacro (ma il tema religioso era d’altra parte comune) ci limiteremo, per ragioni di spazio, ad accennare ad alcune soltanto.

Fra quelle su tavola citiamo in particolare un quadretto, ovvero L’imposizione del nome al Battista, databile intorno al 1435 o poco prima. Qui c’è una comprensione profonda dell’umanesimo fiorentino, non soltanto per il rigoroso impianto prospettico, che permette a ognuno dei protagonisti, realizzati volumetricamente, di occupare il proprio posto l’uno in relazione con l’altro, ma anche rendendo il significato dello spazio delimitato entro un giardino, e, al tempo stesso, aperto, sopra il muro di cinta, a sinistra, col verde degli alberi contro il blu del cielo, e, a destra, mediante la porta ad arco e il corridoio, che, attraversando la casa, conduce verso un altro spazio alberato. È un’integrazione reciproca fra interni ed esterni come accade anche nell’architettura coeva.

Ma dove l’Angelico raggiunge il punto culminante della sua arte compiutamente rinascimentale, pur nella interpretazione religiosa domenicana, è nel grande ciclo di affreschi del convento di San Marco, che il 21 gennaio 1436 il papa Eugenio IV aveva ceduto ai domenicani di Fiesole e che Michelozzo, su commissione di Cosimo de’ Medici, ricostruì interamente dal 1437 al 1452. L’opera dell’Angelico è monumentale per la complessità tematica e per il livello qualitativo. La vastità dell’impegno obbliga l’autore a servirsi di una larga schiera di collaboratori: perciò non tutti gli affreschi hanno lo stesso valore; ma molti sono di sua mano (e sono altissimi) e tutti, comunque, sono stati diretti e coordinati da lui.

Che vi sia un piano preordinato è dimostrato dalla collocazione di alcune pitture: San Domenico che adora il Crocifisso di fronte a chi entra in fondo al braccio del primo chiostro, simbolo del riscatto dell’uomo, come la Crocifissione nella Sala Capitolare; l’Annunciazione in cima alle scale che conducono al dormitorio; e gli altri affreschi in tutte le celle. La scena con San Domenico che adora il Crocifisso è focalizzata dalla prospettiva michelozziana: la luce dipinta è in concomitanza con quella reale proveniente dal chiostro (secondo l’insegnamento di Masaccio) e crea una leggera ombra sul lato sinistro, facendo risaltare la consistenza volumetrica dei corpi visti dal basso in relazione alla posizione dello spettatore. È una solenne e grandiosa immagine che ricorda a tutti il sacrificio supremo del Salvatore e l’importanza dell’ordine domenicano, rappresentato dal suo Santo. Come prova della completa maturità angelichiana nel ciclo dei molti affreschi del piano superiore può essere scelta l’Annunciazione della terza cella, analoga ma spazialmente più ristretta di quella in cima alle scale. La scena si svolge sotto un portico rinascimentale ispirato a uno di quelli che Michelozzo andava costruendo. È un ambiente aperto su un lato; ma la prospettiva, così esattamente definitrice dello spazio, fa sì che questo risulti determinato non dalle pareti, ma, come in Brunelleschi, dalle linee. Da qui l’intimità in cui avviene il dialogo: l’annuncio dell’angelo che reca la parola di Dio e la cosciente, eppur umile, accettazione di Maria. I due protagonisti occupano ciascuno il proprio posto, ma si raccordano mediante le linee delle crociere ed esprimono la purezza della fede attraverso la leggerezza spirituale dei corpi, la bellezza dei colori, la luce. Intorno al 1445 l’Angelico si reca a Roma, dove affresca, con aiuti, la Cappella Niccolina in Vaticano. Qui nelle Storie di Santo Stefano e San Lorenzo, assume un tono maestoso esprimendo il significato storico della Chiesa e la sua saldezza; inserisce i personaggi in scenari complessi, davanti a colonnati che ricordano quelli delle basiliche paleocristiane di Roma, con le figure spesso in primo plano. L’Angelico non è dunque un pittore in ritardo sui tempi, ma, come abbiamo cercato di dimostrare, pienamente rinascimentale.