Cultura & Società

2 Novembre, uno sguardo bambino per capire la morte

di Umberto Folena

Sono morti o non sono morti? Sono svaniti per sempre o risusciteranno? Bisogna che ci mettiamo d’accordo. Quando si giunge sulla soglia, e la fede diventa difficile, difficilissima, quasi una follia, e bisogna proprio fidarsi pregando per chiedere il dono della fiducia, là sulla soglia è vietato tirarsi indietro.

Sono morti ma non sono morti. Chi lo sa meglio di tutti sono i bambini ed è per questo che al cimitero dovremmo andarci sempre con loro. Per imparare da loro. Certo, possiamo rovinare tutto indossando la nostra peggiore maschera tragica, cominciando a tirar su con il naso già sull’uscio di casa, tenendo il fazzoletto in mano e comunicando ai figli l’idea di una perdita irreversibile ed irrevocabile. Per i nonni o – nella peggiore delle ipotesi – per la mamma o per il papà.

Sono morti ma non sono morti. Sono da un’altra parte. Ci precedono, ma desiderano che noi godiamo delle cose della terra di più e più a lungo possibile, prima che li raggiungiamo. Se i bambini fossero liberi di parlare, e si sentissero ascoltati, andare con loro al cimitero sarebbe quasi una festa.

Chi lo sa perfettamente è Neil Gaiman, autore inglese che mescola con impareggiabile abilità paura e sorriso. I cattivi sono cattivissimi e per questo ridicoli; la loro mancanza di moralità spregevole ed esasperata e per questo ridicola; i buoni e generosi lo sono quasi di nascosto, senza enfasi, e per questo li prendiamo sul serio e li ammiriamo. In Il figlio del cimitero (Mondadori, 2009) un neonato sfugge alla strage della sua famiglia gattonando fino al vicino, antico cimitero – che è anche un giardino – dove viene adottato dalle anime del morti. Che alcuni di loro proteggono, vincendo l’iniziale opposizione di quanti di loro, conservatori come sanno essere alcuni vivi già un poco «morti» dentro, affermano: nessun rapporto con il mondo di là, nessun rapporto con nessun altro mondo perché noi bastiamo a noi stessi. Quei morti lui li vede e con loro potrà parlare; da loro sarà educato e amato, e li amerà; con loro vivrà affascinanti avventure; fino all’adolescenza, quando le anime a poco a poco svaniranno, e perfino la loro memoria scivolerà nell’oblio. E lui partirà… Ma finché è un bambino, Nobody – soprannominato Nob – «Nessuno», quasi fosse un novello Odisseo, vive felice e non è angosciato dalla morte perché sa che i morti sono morti, ma non sono morti. Sono semplicemente andati da un’altra parte; e il confine, per chi è molto giovane e ha il cuore puro, è una semplice convenzione.

Visitare i morti con i bambini aiuta a parlare con i morti. Una coppia di adulti di fronte al mucchio di terra sotto il quale hanno sepolto i genitori, tanti anni fa, tace. Sussurra una preghiera. Rievoca un episodio… ma sottovoce, come se le parole fossero stonate e rompessero il silenzio con il loro clangore. Ma quando mai vai a visitare qualcuno e rimani lì zitto e imbarazzato?

La stessa coppia con i bambini si comporta in modo del tutto diverso, o almeno così è sperabile. I bambini sono curiosi, vogliono sapere tutto di chi sta dall’altra parte. Anche se è morto, anzi «morto» tra virgolette, i sentimenti che legano tra loro le persone sono indissolubili e allora nessuno muore mai per davvero, per un bambino. Semplicemente, parte. È altrove. Ma mai troppo lontano per non parlare (sottovoce, perché il silenzio del cimitero è sacro e magico ad un tempo), ascoltare, voler bene. Così ai morti fa piacere sentirsi raccontare delle storie… i morti amici del piccolo Nob ne raccontano tante al loro figlio adottivo, il quale è molto curioso del mondo fuori del cimitero dove però è meglio che non si avventuri perché c’è chi gli vuol male (una profezia afferma: quando nascerà lui, per la perfida organizzazione che da secoli tesse la sua trama malvagia sul mondo sarà la fine, questa sì definitiva).

Il piccolo Nob è Odisseo e Dante, assieme. Vive momentaneamente in Paradiso preparandosi alla sua vita nel Purgatorio del mondo dei vivi ma visiterà anche l’Inferno, ingannato dai soliti «gatto&volpe», imparando così a riconoscere il male e i dissimulatori. Così, i bambini al cimitero vengono accompagnati dai grandi nella «terra di mezzo», misteriosa ma normale e naturale, che separa due mondi mai in realtà del tutto separati. Forse questo va fatto cogliere ai bambini… o forse saranno i bambini a farlo cogliere a noi: il cimitero è un ponte, un portale, una spiaggia dove possiamo osservare le onde del mare che ci attende, e giocare per un poco con la sabbia umida prima di tornare nell’entroterra, dove quelli che mondo di là ci guardano e ci vogliono bene.

Fin qui tutto appare semplice, fin troppo. In effetti non lo è. Il senso della perdita, per un adulto, può essere lacerante. Il rimpianto duro da digerire. E potrebbero non esserci bambini. E allora? Allora, dopo Gaiman, c’è Steven Spielberg con la straziante scena finale di Salvate il soldato Ryan. Gli anni sono passati, Ryan non è più un soldatino appena sbarcato in Normandia ma un padre e nonno. Torna in Francia per salutare il suo secondo padre: il primo gli ha donato la vita assieme a sua madre; il secondo gliel’ha donata una seconda volta, perdendo però la propria, andandolo a sottrarre alla carneficina. Ryan, sapendo che piangerà, lascia figli e nipoti lontani. Vuol essere solo. Le sue sono parole semplici: vedi – dice – la vita che mi hai regalato è stata una vita degna, sono stato un brav’uomo proprio come tu mi hai chiesto. Il sacrificio non è stato invano. Ryan parla per sé, ma anche per milioni di europei restituiti alla libertà e alla democrazia…

E allora ci potrà essere anche un momento «alla Ryan», al cimitero. Perché siamo esseri umani e abbiamo bisogno anche di lacrime, talvolta. Ma poi, dopo essercele asciugate, lasciamo fare ai bambini. Cediamo a loro il comando. Perché soltanto a loro riesce perfettamente ciò che noi, con la nostra fede fragile, stentiamo a fare: credere davvero che sono morti ma non sono morti. Che noi moriremo ma non moriremo. Ma passeremo attraverso il fuoco ed il sangue per abitare un’altra terra. Che i bambini vedono e riconoscono. E noi, forse per le troppe lacrime, stentiamo a intravedere.