Cultura & Società

Apocalypsis, un oratorio fra musica e fede

di Mario RuffiniAlla voce «Menichetti, Dino» nessun pur ampio Dizionario musicale enciclopedico riporta alcunché, né il nome compare nell’esaustivo Annuario musicale italiano. Se dovessimo quindi seguire le indicazioni della nostra onnivora contemporaneità, che tutto ingoia lasciando trasparire solo ciò che «appare», dovremmo senz’altro licenziare l’enorme lavoro musicale di questo compositore pistoiese negli scaffali della babelica biblioteca di borgesiana concezione, lasciando ai posteri l’ardua sentenza. Ma siccome ravvediamo nella mole di questo Apocalypsis notevoli valori musicali che si uniscono a altissimi valori di fede, l’insieme ci appare un oratorio degno di nota e non teniamo dunque conto di enciclopedie e annuari.

Alla voce «Apocalisse» troviamo invece due opere musicali, una di Gian Carlo Menotti del 1951, che è in forma di poema sinfonico e che al titolo Apocalisse fa seguire il sottotitolo «impressione poetica»: un lavoro ispirato all’Apocalisse di San Giovanni e a altre versioni apocrife (Apocalisse di Baruch e Libro di Enoch, principalmente), diviso in tre parti, «Improperia», «La Città Celeste» e «Gli angeli militanti». L’altro, del 1939-1941, è un oratorio fantastico in un prologo e tre parti di Jean Francaix dal titolo Apocalypse selon Saint-Jean.

C’è un’ulteriore opera, Apocalypsis cum figura, che non esiste in musica ma nella esemplare e sconvolgente descrizione letteraria di Thomas Mann, con cui il protagonista Adrian Leverkühn, in piena estasi demoniaca – siamo alla fine dei 24 anni concessi di infinita capacità creativa – porta a compimento la sua opera determinante nell’acquisizione della tecnica dodecafonica. Una descrizione musicale rabbrividente che conclude il Doctor Faustus e insieme impedisce il sonno per molte notti. Il ponderoso lavoro musicale di Dino Menichetti può rapportarsi dunque ai due che lo precedono per contenuto e forma: come quello di Menotti si ispira all’Apocalisse di San Giovanni, come quello di Francaix è invece suddiviso in un prologo e tre parti, mentre nulla a che vedere con quello fantastico descritto da Mann.

Il Prologo è costituito da «Titolo e carattere del libro» e «Saluto di Giovanni alle 7 Chiese». La Parte prima è costituita da «Visione di Gesù Cristo glorioso», «Comando a Giovanni di scrivere», «Lettera alle 7 Chiese – Moniti e promesse (Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatìra, Sardi, Filadelfia, Laodicea)». La Parte seconda è la più imponente dell’oratorio con i suoi sedici capitoli, racchiusi in quattro sezioni: «Visioni simboliche e lotte della Chiesa», «Visioni intermedie», «Visione preparatoria», «I 7 segni». La Parte terza tratta infine del «Trionfo di Cristo e della Chiesa», cui segue infine un Epilogo che chiude l’ampio lavoro. L’oratorio, che comprende il testo integrale latino di Giovanni, è scritto in occasione del diciannovesimo centenario della «redazione finale del testo stesso, individuata negli anni 95-96 (Alfred Läpple)».

Molte sono le cose che colpiscono di questo oratorio Apocalypsis (l’ultimo scritto da Menichetti dopo L’Epifania del Signore – 1947-1986, Il figlio della vedova di Naim Risuscitato – 1950, Giovanni Battista – 1952-1992, La guarigione del cieco nato – 1991, San Giacomo – 1994, editi da Bongiovanni, Multipromo, Carrara): innanzi tutto l’intero testo di Giovanni, musicato integralmente per la prima volta. Un lavoro di proporzioni dunque epiche, che con una modestia ragguardevole Menichetti comunica di depositare in Archivio solo perché ai posteri ne rimanga memoria: è a questo compito che rispondiamo volentieri con questa nota. Ma Menichetti spera naturalmente in una sua possibile esecuzione, e a tal fine prescrive in partitura anche gli abiti che gli esecutori dovranno indossare, così come ricorda che gli squilli delle «7 trombe» dovranno essere affidati a 4 cornette, per differenziarle dalle trombe d’orchestra.

È evidente che Menichetti scriva oratori come atto di fede, cercando di tradurre nella sua lingua, la musica, la sua personale e intima preghiera. E siccome «la Rivelazione offre un testo prevalentemente narrativo-descrittivo», il compositore esprime la scorrevolezza del canto con un «parlar-cantando», anche se lascia qualche spiraglio lirico-drammatico di tanto in tanto. Egli non riconosce alla musica qualità «esegetiche»: per comprenderla è dunque fondamentale che a priori si legga e si assimili il testo con uno «sguardo di Fede». Tale è il suo intento programmatico nel «narrare in canto» l’Apocalisse. Non bisogna dunque aspettarsi nessun sensazionalismo apocalittico (come quelli, per intenderci, che riempivano la descrizione dell’Apocalypsis cum figura di Thomas Mann): è la parola che deve dominare su tutto. Il canto e le forme strumentali sono suggerite dalle parole, e anche l’orchestra si fonda con esse. Queste almeno le proposizioni dell’autore.

Da queste proposizioni dobbiamo partire per svelare una partitura nella quale si insidia, a dispetto del suo autore, anche qualche equivoco musicale. Il problema di fondo della musica di ogni tempo è stato, senza tema di smentita, il rapporto fra parola e musica. Un rapporto che ha configurato il divenire non solo musicale ma complessivo di intere civiltà e culture. Quella ebraica, quella cristiana. Mentre nella cultura ebraica musica e parola sono tutt’uno, nella cultura cristiana sono sempre in rapporto dialettico e conflittuale; e ancora: mentre nella prima la musica non è intesa come arte o prodotto di fantasia, ma priva di qualsiasi aspirazione artistica e di autonomia estetica, nella cultura cristiana la musica ha sempre aspirato a una autonomia artistica e a una autonomia dalla parola. Tenendo presenti questi concetti possiamo meglio comprendere il lato debole del lavoro di Menichetti, ragguardevole nella sua complessità e ampiezza. Egli unisce, magari inconsapevolmente, etiche della cultura ebraica (la linea del canto in forma spesso di cantillazione, la totale sottomissione della musica alla parola, la mancanza di qualsiasi aspirazione artistica dell’oratorio, da leggersi semplicemente come atto di fede più che come lavoro dell’arte musicale) a appagamenti estetici propri della cultura cristiano-occidentale, con una orchestra che se nelle aspirazione del compositore dovrebbe fondersi al canto e alla parola, nei fatti assume continuamente il disegno di un «disagio polifonico» tipico della nostra cultura, e una movimentazione delle linee che si allontana dal canto e dalla parola, cercando non di rado una sua autorevole e autonoma espressione. Ma anche il canto, nelle sue parti corali, mostra una volontà espressiva che ritorna con forza nell’alveo della nostra più autentica tradizione musicale sacra.

Un oratorio che sarebbe per tanti motivi davvero bello poter ascoltare, proprio per l’unione di aspetti molteplici che nell’insieme costituiscono un monumento musicale a cui solo una esecuzione può dare conto. Un oratorio, questo Apocalypsis, da leggere come atto di fede o come espressione dell’arte musicale del Novecento? A questa domanda lasciamo volentieri che sia il tempo, sovrano e prìncipe, a rispondere a noi e all’Autore di questo lavoro, a cui va il nostro plauso e la nostra gratitudine, e l’augurio di una auspicabile esecuzione.

Dino Menichetti, Apocalypsis,Oratorio per Soli, Coro e Orchestra, Testo integrale latino di Giovanni (San Girolamo, Testo latino della «Vulgata»), Pistoia, Edito dall’Autore, 1995-1996. Riduzione per Canto e Pianoforte, pagine 375.