Cultura & Società

Canti popolari toscani

di Elena GiannarelliC’era una volta la veglia, l’abitudine di riunirsi dopo cena, nella cucina della casa colonica in una qualunque campagna toscana o nei metati, se si era, per esempio, sulle Apuane, intorno al fuoco che essiccava le castagne. Lì si lavorava, ma soprattutto si ascoltava. Chi era andato a scuola leggeva un pezzo a sera di quella che era la letteratura popolare: «I Cavalieri della Tavola Rotonda», la «Pia dei Tolomei», i «Reali di Francia» ed anche le ottave dell’Ariosto e del Tasso; si raccontavano fatti avvenuti, magari ampliati il giusto (da qui il detto «Raccontalo a veglia» quando qualcuno la sparava grossa) e si poteva anche sentir cantare, sulla melodia delle ottave, il recente evento di cronaca, l’ultima novità.

C’erano poi il Maggio, le Befanate in Garfagnana, il Bruscello a Montalcino, ma c’erano soprattutto la festa del paese, la sagra, il giorno del patrono: allora arrivavano i poeti estemporanei, che improvvisavano in endecasillabi, in ottave più o meno lente, più o meno fiorite, con melodie più o meno spezzate (o rotte): tutti sistemi buoni per avere il tempo di pensare alla rima successiva e di tirare il fiato, come suggerisce Riccardo Marasco (nella foto a destra), cantore lui stesso e ricercatore di canti popolari.

A volte due poeti si misuravano nella tenzone o «disturna», alternandosi a cantare in un «battibecco» in rima. Vinceva chi metteva in difficoltà l’altro, chi lo lasciava incapace di replicare in modo giusto. In questo campo, nell’Ottocento, maestra indiscussa fu Beatrice del Pian degli Ontani, poetessa pastora e analfabeta, che addirittura parlava usando i ritmi. In un contrasto mise a tacere un suo sfidante che faceva il sarto cantandogli: «Se tu sei sarto come sei poeta/ povero l’ago e disgraziata seta».

C’erano poi le occasioni quotidiane di canto, quando riaffiorava dalle nebbie del tempo un repertorio antichissimo, che subiva modificazioni, aggiustamenti, ma si poteva ricondurre al Rinascimento se non al Medioevo. Le serenate, i rispetti, gli stornelli, i canti del lavoro, sono un filo prezioso fra le generazioni e fra i popoli dell’intera penisola. Da noi il canto trentino «La domenica andando alla Messa», legato alle gite scolastiche e alla vocina educata di Gigliola Cinquetti, si intitola «Quando arrivai per monacarmi» ed è stato raccolto nell’area di Vicchio di Mugello. Da lì arriva «La pastora e il lupo» che ripropone la storia del più bel caprin posseduto dalla ragazza e mangiato dal nero animale del bosco. Come sulle Alpi, addirittura come nei medievali «Carmina Burana». In Toscana il cavaliere con la spada, che ha invitato la ragazza a vigilare, apre la pancia del lupo (come in Cappuccetto Rosso) e restituisce il caprino alla pastora, chiedendole un bacio in compenso. Lei lo invita a parlare piano per non rovinarsi la reputazione; a Santa Croce sull’Arno glielo nega, per non correre il rischio di restare zitella. La necessità di trovare marito è fonte di canto: «Santa Maria degli angeli, fate fiorir le zucche, date marito a tutte e datelo anche a me», pregavano le fanciulle senza fidanzato. Se poi lo trovavano e si ammalava, c’era il canto adatto: «O santissima vergine Maria… vi prego pel mio ben che se ne more… E se quel poverin mi sarà reso/ ogni sabato avrete il lume acceso». La ragazza un po’ «farfalla» intonava: «Peschi fiorenti, ho canzonato diciannove amanti, e se canzono voi saranno venti». I giovanotti, sempre pronti a cogliere le imperfezioni delle fanciulle replicavano: «Fior di ricotta, la vostra mamma per farvi la bocca, la prese la misura a una ciabatta».

I canti celebri sono tanti. «La Santa Caterina» ripropone il contrasto medievale fra diavoli che vogliono portare giù l’anima della santa (rea di essere cristiana e di aver pregato disobbedendo al padre pagano) e angeli del cielo che vincono e la fanno entrare in paradiso. «Maremma amara», raccolto all’inizio dell’Ottocento, poggia su un materiale molto più antico: di malaria in Maremma si hanno notizie dall’età medievale. La melodia è stata ritrovata da Marasco in un manoscritto della Biblioteca di Modena: un gentiluomo di corte fiorentino se n’era servito per un dialogo d’amore. Alla fine del ‘700 il Menchi la usò per il suo canto di coscritti costretti a marciare contro Napoleone: «Partire partirò, partir bisogna/ dove comanderà nostro sovrano».

I canti patriottici sono un terreno importante: pochi sanno che «Addio, mia bella addio» fu composto da Carlo Alberto Bosi in un caffè di via Calzaioli, su una melodia popolare antica. L’attaccamento dei toscani al tricolore è testimoniato nei loro canti: «Bianco, rosso, verde/ è il terno che si gioca e non si perde». Un patrimonio dunque da valorizzare e da studiare, sulla scia di Bianchini e Marasco. Non per nulla Poliziano in persona andava alle veglie e godeva di quei suoni e di quelle armonie.

A colloquio con Riccardo MarascoSuo padre, l’ingegner Marasco, lo voleva ingegnere come lui. Dopo il Liceo classico agli Scolopi il giovane Riccardo si iscrisse a ingegneria, ma pensava ad altro. In casa aveva trovato le chitarre e gli scritti del bisnonno materno, musicologo. La passione per la musica era quindi nel suo Dna. Quella del folclore toscano fu una scelta controcorrente, negli anni 62-63 in epoca di urlatori, quando stornelli e rispetti sembravano roba da dinosauri.

L’incontro con il maestro Piero Adorno fu decisivo. Nel 1963 il primo concerto a Terni fu un successone. Gli studi a ingegneria continuavano, il padre brontolava, la voglia di fare era tanta, insieme a una grossa spinta per ricercare la verità. Marasco è forse l’unico cantautore italiano ad aver frequentato un corso di teologia per laici, quando questo fu aperto a Bologna. Al tempo dell’alluvione ha diretto gruppi di volontari. Ha fatto di tutto, perfino un corso di pilotaggio aereo con Vasco Magrini.

Un personaggio, Marasco, con tanta voglia di volare in molti sensi; la sua frase preferita è un detto di Terenzio: «Sono un uomo e non ritengo estraneo a me niente di quanto è umano». Gli fu insegnato da padre Cecchini agli Scolopi. La voglia di volare gli ha fatto fare scoperte importanti: in uno spettacolo memorabile del 1969 al Rondò di Bacco a Firenze e alla presenza di Charles Singleton cantò il «Quant’è bella giovinezza» di Lorenzo il Magnifico su un’aria ritrovata in un manoscritto. Ha lavorato con Roberto Murolo, monumento vivente della canzone napoletana; ha inciso numerosi dischi, l’ultimo dei quali dal titolo «Pace e non più guerra», contenente Laudi dal 1200 al 1600. Ha studiato le melodie popolari toscane e le tecniche di canto, ha ricercato e raccolto strumenti antichi. Parlare con lui è una continua scoperta: si capisce che canzoni come «Teresina un ti ci porto più» o «L’alluvione» sono solo un aspetto marginale di un personaggio poliedrico che ha fatto cabaret con Oreste Lionello e per il quale stare su un palcoscenico ed avere un pubblico sono necessità vitali.

Colpisce soprattutto l’amarezza di chi ha cercato di collocarsi sempre al di sopra delle parti, convinto che la cultura debba sfuggire a etichettature e non debba servire a scalate di vario genere. Ora sta in qualche modo pagando questa sua «indipendenza».

I progetti di Riccardo Marasco vanno per il momento in altre direzioni. «Sto partendo per New York – ci dice – dove il 23 novembre canterò canzoni di Lorenzo il Magnifico, in una cena dedicata a lui e al Ficino. In America tutto questo interessa. Qui non lavoro non perché non abbia più niente da dire. I problemi sono altri, politici, di schieramenti, di “agganci” giusti e di educazione del pubblico. Non sono il solo a soffrirne. Un cantautore straordinario come Egisto Malfatti, viareggino, purtroppo è morto senza avere avuto il successo che meritava. La sua canzone “Passeggiata Margherita” dedicata al Lungomare come era all’inizio del Novecento é vera poesia. I Toscani – prosegue Marasco – continuano a cantare: ci si accorge solo di pochi e forse non dei migliori. Canto e poesia non sono morti e non c’è solo il passato. Io ho continuato le mie ricerche, ho presentato uno studio sulla voce umana al parlamento europeo di Bruxelles. Fra poco aprirò un ristorante al Castello di Lamole in Chianti, vicino a San Leolino. Si chiamerà “L’aia dei canti”: vi si mangerà bene e vi si canterà meglio. La canzone è il primo veicolo della cultura, ma anche la tavola ha la sua importanza».

È un peccato non riuscire a sentire più spesso una voce che evoca le stradine coi muri a secco dei colli fiorentini, gli alberi arruffati dal vento dell’Appennino, le scaglie di mare della Maremma. Peccato che perfino l’arte debba pagare il pedaggio alla politica e a quanto le ruota intorno.