Cultura & Società

Come mangiavano i nostri nonni

di Ennio CicaliCarretti, chioschi, friggitorie, i luoghi per mangiare fuori casa erano numerosi, molto diversi da quelli d’oggi. Pizzerie e spaghetterie erano di là da venire; i caffè riservati alla gente bene. C’era invece una fitta rete di botteghe o ambulanti, che spesso vendevano un solo prodotto.La Toscana è ricca di tradizioni legate al cibo di strada, considerato una volta un «mangiare da poveri», vincolato in modo stretto al salario. Non c’è città, paese o borgo toscano che non abbia il suo piatto tradizionale: trippa e lampredotto a Firenze, ma anche castagnaccio e pattona, roventini, coccoli, gnocchi fritti; a Livorno, come a Viareggio, era possibile trovare un carretto o un chiosco ove gustare la torta di ceci – da molti chiamata «cecina» – in Lunigiana si trovavano i testaroli, i necci sulla montagna pistoiese. Piatti scomparsi dalle nostre strade, che si possono ritrovare nei ristoranti o qualche volta nei mercati o nelle fiere, come accade per le frittelle di S. Giuseppe, i duri di menta o i brigidini.

Sapori ormai scomparsi, com’è accaduto ai roventini (chiamati da qualcuno sanguinacci), una sorta di crepe confezionata con sangue di maiale, servita cosparsa di zucchero o formaggio grattugiato. I roventini sono stati vietati per ragioni igieniche, anche se qualche parte sembra sia ancora possibile gustarli.

Appartengono al passato anche i buzzurri, un termine ormai entrato nella lingua nazionale col significato di persona poco gradevole, ma che indicava specie nella vecchia Firenze l’artigiano che lavorava e vendeva il castagnaccio e la pattona. Spariti i buzzurri, l’ultimo è stato portato via dall’alluvione di Firenze del ’66, è facile trovare il castagnaccio nei forni o nelle pasticcerie. Esistono vari modi di fare il castagnaccio: a Livorno, dove lo chiamano «toppone», è preferito alto e denso. Altri lo preferiscono più basso, con il rosmarino, l’uvetta, i pinoli e le noci sgusciate e spezzate. In Lucchesia è d’uso gustarlo con la ricotta fresca. Sembra che il castagnaccio sia di origine lucchese, infatti, in uno scritto del 1533 si legge che un certo «Pilade da Lucca fu il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riportò loda». Ad Arezzo è conosciuto con il nome di «Baldino». Scomparsa del tutto la pattona, ovvero la polenta di farina di castagne, un piatto che ha sfamato molte generazioni nei secoli scorsi. Legati alla farina di castagne, chiamata anche «farina dolce», sono i necci, per molto tempo il piatto unico o quasi per gli abitanti della montagna pistoiese.

A Massa e Carrara è possibile gustare i testaroli, specie nei ristoranti, mentre sono sempre meno i chioschi e i carretti. I testaroli della Lunigiana sono considerati la più antica pastasciutta del mondo, in quanto già erano già consumati ai tempi dell’impero romano, prendono il nome dal «testo», originariamente in argilla, oggi in ghisa. Resistono a Firenze il lampredotto e la trippa. Scomparsi i tradizionali carretti dei «trippai», sostituiti da chioschi in regola con le norme sanitarie, continua il rito del panino con la trippa o il lampredotto che accomuna da decenni i fiorentini.

Sembravano il retaggio di un passato da dimenticare, oggi invece si va alla riscoperta dei sapori, da molti dimenticati o addirittura ignorati, che formano l’universo tutto da scoprire del «cibo da strada». Per questo il 29 aprile ad Arezzo si terrà un convegno internazionale organizzato dall’università di Siena, con l’intervento di studiosi europei di differenti discipline, comunicatori e organizzatori di eventi, che si confronteranno sulle più diverse e esotiche forme del mangiare in strada. «Le conversazioni aretine – dice Piero Ricci, docente dell’ateneo senese e di quello di Urbino – intendono riflettere sui modi, le tecniche, le regole antiche e nuove, le collocazioni urbane ed extraurbane, i rituali festivi, le resistenze da mettere in atto di fronte ai fantasmi igienici e salutisti, e così indicare le prospettive future del cibo di strada».

«Terza via tra il fast-food e lo slow-food – conclude il professor Ricci – il cibo di strada si propone come oggetto privilegiato tra le modalità alimentari di una società che tende allo spilluzzicamento».