Cultura & Società

Così i cattolici rialzano la voce

di Lorella PellisSono scritti provocati per lo più da un tema di attualità o da una discussione scaturita da fatti di cronaca di questi ultimi anni quelli raccolti ora da Pietro De Marco in Apparizioni quotidiane. Il nostro conflitto con i segni degli altri. In realtà De Marco, docente di Sociologia della religione e Sistemi religiosi comparati sia presso l’Università degli studi sia alla Facoltà teologica dell’Italia centrale di Firenze, ha in parte rielaborato e riunito in questo volume (pubblicato dalla Libreria editrice fiorentina, pagine 256, euro 14) gran parte degli interventi apparsi dal 2003 su alcuni importanti siti internet (in particolare su www.chiesa.espressonline.it e su www.olir.it), sul Foglio e su Avvenire, insieme ad alcuni inediti. Professore, il libro è permeato dalla sua preoccupazione per quei processi emergenti che riguardano la trasformazione culturale e i cambiamenti di quelli che lei chiama istituti fondamentali, famiglia in primo luogo… «Senza dubbio, tuttavia il disegno di queste paginette è più ampio. Vi sono dei fronti di trasformazione sottili, quelli che passano attraverso l’attenzione e il conflitto sui simboli religiosi. In fondo anche noi cristiani ci siamo abituati alle pareti bianche, le coltiviamo, pensiamo che ci permettano di cogliere più profondamente il senso del sacro; e non siamo abbastanza consapevoli che la parete bianca sottrae visione e presenza e rischia di inaridire sia canali di esperienza sia canali di conoscenza religiosa. Pievi e cattedrali con gli interni ricchi di immagini sono come l’irruzione della città di Dio, ma se noi rendiamo bianca la parete, è la notizia dell’esistenza della città di Dio tra noi che diviene illeggibile. Questi sono processi meno vistosi e meno drammatici, in apparenza, di quelli che riguardano famiglia e bioetica, ma sono importanti per la riproduzione delle grandi Tradizioni. Capisco allora l’attenzione ai segni religiosi che ha la cultura islamica; e sulla falsariga di questo partecipo appassionatamente al dibattito sulla presenza del Crocifisso negli spazi pubblici che mi pare far parte di questa dimensione profonda. Nel libro sono stati raggruppati temi come la visibilità dell’Islam, i segni religiosi, il Crocifisso, dati che per qualcuno sono contraddittori: il Crocifisso escluderebbe i segni religiosi degli altri o questi escluderebbero il Crocifisso. La mia tesi, invece, peraltro non isolata, è che solo lo spazio pubblico aperto all’uno implica la disponibilità di quello spazio per gli altri».

Cosa ne pensa della polemica sulle invasioni di campo della Chiesa italiana e del «silenzio» del laicato cattolico?

«Si legge che il laicato è reso silenzioso dall’iniziativa della gerarchia. Anche a proposito di Giovanni Paolo II si è detto che la sua grandezza carismatica ha fatto tacere la Chiesa. Lo stesso schema e lo stesso equivoco. La mia tesi è radicalmente diversa. C’è stato nei decenni un processo di immersione e quasi di invisibilizzazione del laicato cattolico, di quello che non “taceva”, entro la cultura politica comune. La scelta di libertà del laicato del dopoconcilio ha avuto l’effetto paradossale di omologarlo alle figure politiche egemoni. Troppi cristiani nella loro scelta “per il mondo” hanno cessato di pensare, operare e parlare con voce propria nella sfera pubblica. Ma, parallelamente, cosa è avvenuto? La funzione petrina, per la grandezza del pontificato di Giovanni Paolo II, ha preso in mano questo compito – il parlare ad alta voce – perduto quasi inconsapevolmente dai molti laicati e chiese nazionali. Con ciò la Chiesa tutta ha ripreso voce; è ritornato plausibile il nostro giudizio pubblico sui grandi processi secolarizzanti in nome della concezione cristiana del mondo e dell’uomo. L’idea che il laicato sia stato ridotto al silenzio dal Magistero è paradossale e assurda; essa suppone che il laicato “parla” quando è in dissenso, e che vi siano degli ambiti in cui il solo laicato deve parlare, come per un mandato specialistico. Ma la valorizzazione moderna del laicato, attraverso l’attribuzione di compiti peculiari, è stata tanto preziosa quanto congiunturale; nell’unico corpo ecclesiale “parla” chi ha la capacità, la qualità di visione, oltre che il mandato, a parlare. L’autentico “profetizzare” dei vertici gerarchici ha contribuito al processo di ricostruzione della soggettività cattolica; ed è assolutamente errato dire che il laicato è ridotto al silenzio: esso invece finalmente “parla”. Senza considerare che, dal punto di vista del polemista laico, si invoca un laicato cattolico che faccia resistenza, solo perché questo indebolirebbe la posizione e la voce della gerarchia».

Nel suo libro lei si sofferma anche a riflettere sul confronto con il terrorismo islamico e sulla pacificazione del Medio Oriente. Anzi fa addirittura una proposta di estendere al conflitto israelo-palestinese e a quello interno all’Iraq del dopo Saddam il modello concordatario sperimentato in Italia con il Trattato lateranense del 1929. Ce la spiega meglio?

«Propongo per la Terra Santa un concordato “sui generis” che implica un doppio riconoscimento tra due realtà che sono entrambe regolate in ultimo da un diritto sacro. L’idea di base è che si possono realizzare degli accordi molto importanti tra soggetti istituzionali asimmetrici: qui, da un lato uno Stato, dall’altro una comunità parte di una più vasta comunità religiosa transnazionale. D’altronde questo Stato (Israele) ha anche un fondamento religioso, mentre i palestinesi che appartengono alla “umma” sono anche una precisa popolazione, che domani sarà Stato. Ambedue le parti in maniera diversa hanno al loro interno una costituzione ad un tempo politica e religiosa. Allora l’idea è questa: che l’atto decisivo, quello che legittima in ultimo la nuova coesistenza fra i due Stati, deve essere anche pensato in termini di interpenetrazione tra diritti religiosi. Il diritto sacro islamico, che considera la Palestina e Gerusalemme come territorio proprio, deve accettare che una porzione di quel territorio possa essere sotto la sovranità di un altro diritto “originario” (così come nel 1929 una porzione del nostro territorio nazionale è stata “restituita” alla sovranità della Santa Sede). Un atto che si fa sapendo che si “riconosce” una pretesa legittima altrui per ragioni superiori, quelle della pace. Reciprocamente il soggetto Israele deve riconoscere legittimità e autorità all’atto giuridico-religioso islamico. In più lo stesso diritto sacro dovrà regolare un nuovo rapporto tra ebrei e musulmani e cristiani di Gerusalemme in maniera anche teologicamente adeguata. Credo fermamente e da tempo che il conflitto tra (e con) comunità concrete a struttura religiosa abbia soluzioni che passano in maniera non secondaria attraverso il ragionamento teologico».