Cultura & Società

Da dieci anni orfani di quella voce di garanzia civile che fu Mario Luzi

Nell’anno appena passato, il 2014, non sono state poche le manifestazioni che lo hanno ricordato nel centenario della nascita (spesso con i suoi compagni di quell’«ermetismo» in cui non si è mai completamente riconosciuto); e la grandezza della sua poesia è stata sottolineata e attualizzata spesso sapientemente. E tuttavia, forse, quel che è mancato e ancor oggi ci manca, perché pertiene ai ricetti più intimi dell’anima, è il suo ruolo di garanzia civile, di spessore di quella civitas che tutti avvertivamo in lui e che ci accompagnava. La civitas che è il comune sentire dell’insieme dei cittadini. In lui riposava una cultura mai fine a se stessa e piuttosto aperta, coinvolgente, a riprendere e consolidare quell’idea di «neo-umanesimo» tanto invocata quanto raramente tradotta praticamente.

Luzi, per religio e per pietas ricordava piuttosto i cancellieri-umanisti del primo Quattrocento fiorentino: al servizio della città, ministri nel servire i propri simili, secondo quella formula che usava il suo affezionato compagno di viaggio che fu Carlo Bo: quello di essere un «cristiano imperfetto», incantato dalla «perfezione», umile fra gli umili. Non a caso, quando scriverà l’Opus Florentinum, affiderà agli operai del cantiere della Cupola del Brunelleschi i versi più umani di quella incredibile avventura. E scriverà: «Sia il millennio un allarme temporale all’intemporalità che noi viviamo da poveri, umilmente, giorno per giorno, sia esso un incremento senza fine del Verbo e del suo senso…».