Cultura & Società

Don Barsotti, le prediche al Papa

di Andrea Fagioli

In uno dei suoi tanti diari, il 15 novembre 1970, don Divo Barsotti (nella foto), senza nessun commento, annota una telefonata di monsignor Giovanni Benelli: «Il Papa vuole che gli predichi gli esercizi spirituali in Vaticano, nella prima settimana di Quaresima». La richiesta sembra lasciarlo indifferente, ma un mese dopo, il 17 dicembre, scrive: «Mi domando che cosa voglia dire per me, che cosa vorrà dire per la mia vita continuare questo cammino, predicare al Papa. Non lo so». All’inizio del 1971 i primi segni di trepidazione: «Non avrei mai pensato che Dio mi avrebbe chiesto di parlare al Papa. E non può essere una cosa da nulla, una cosa inutile, scontata». A febbraio, l’«illuminazione»: «La prima meditazione che farò al Papa sarà questa: la terribilità della fede. Se il cristiano non trascende ogni realizzazione umana, è evidente che il cristianesimo è soltanto menzogna. Il messaggio cristiano esige, per colui che l’accoglie, la rinunzia a tutti i valori del tempo». Il 28 febbraio «la prova è superata, male o bene, è superata».

Nell’Anno sacerdotale, quelle meditazioni dettate a Paolo VI e alla Curia romana per gli esercizi spirituali della Quaresima del 1971, vengono ora riproposte in un volume della San Paolo con il titolo Le responsabilità dei preti (pp. 224, euro 13) e arricchite da una prefazione-testimonianza di padre Reginald Grégoire, benedettino, grande storico del monachesimo e ammiratore entusiasta di don Divo, che nel 1971 lavorava in Segreteria di Stato a stretto contatto con il Papa e con l’allora monsignor Benelli, futuro arcivescovo di Firenze e cardinale. Completa il volume una postfazione a firma di fratel Sergio Scardigli, il più anziano della famiglia monastica fondata da Barsotti: la Comunità dei figli di Dio, che ha la sua Casa madre a Settignano, sulle colline di Firenze.

Come si svolgono e si svolgevano gli «esercizi al Papa» ce lo rivela lo stesso padre Grégoire: «In Vaticano – racconta – vige l’uso di organizzare all’inizio della Quaresima un corso di circa otto giorni di esercizi spirituali, proposti al Pontefice, ai cardinali, ai vescovi e agli altri funzionari della Curia pontificia. Gli incontri di spiritualità (quattro meditazioni giornaliere: Lodi, Ora media, Vespri, Rosario) avvengono nella Cappella Matilde, ora denominata Redemptoris Mater, al primo piano della residenza papale. In un vano laterale è seduto il Pontefice, in una posizione tale da non essere visto dall’assemblea ma dal solo predicatore. L’ultima meditazione della giornata è seguita dall’adorazione eucaristica».

La scelta del predicatore è generalmente di competenza del Papa, ma all’epoca di Paolo VI, come spiega padre Grégoire, questo compito era affidato alla Segreteria di Stato. Fu quindi Benelli a proporre a Montini il nome di don Divo Barsotti, che già allora era conosciuto e apprezzato anche dal Papa come un «grande scrittore dei misteri di Dio».

In 22 momenti, Barsotti sviluppò una «stupenda teologia del sacerdozio»: a partire dalla vocazione sino al sacrificio eucaristico, «supremo esercizio del ministero sacerdotale cristiano», passando attraverso incomparabili riflessioni sulla missione, la testimonianza, l’ascolto della Parola, la dimensione della carità, la preghiera personale e liturgica: tutto si traduce in un nuovo stile pastorale alla luce del Concilio.

«Vivere razionalmente è essere uomini – predicò Barsotti –. Vivere nella fede è essere cristiani. Vivere nella fede è respirare in una atmosfera nuova, è vivere in un mondo nuovo, nel mondo di Dio…. E noi dobbiamo respirare in questa immensità divina… in questa eternità di Dio».

Sergio Scardigli racconta che lo stesso Barsotti (scomparso quattro anni fa all’età di 92 anni: era infatti nato a Palaia in provincia di Pisa e diocesi di San Miniato nel 1914) riferì alla sua Comunità, il 7 marzo 1971, degli Esercizi in Vaticano non senza qualche aneddoto sulla «presenza a tratti… sonnolenta di qualche cardinale nel bel mezzo della predicazione». Oppure di essersi rivolto a Paolo VI dicendo: «Lei, Santità, è grande perché è Papa, ma è più grande ancora perché è figlio di Dio». Ma Barsotti parlò anche dell’intensa emozione dell’incontro «con un Papa certamente segnato dal peso di gravi responsabilità in anni travagliati per la Chiesa intera».

Rientrato nella sua piccola Casa San Sergio, dopo i giorni in Vaticano, don Divo «riprese la sua vita di sempre tra la cella, la cappella e la biblioteca nel silenzioso raccoglimento del suo dialogo con Dio e nella semplicità della vita comune». Per lui essere in Vaticano o a Casa San Sergio era la stessa cosa. Non c’era differenza tra il parlare davanti al Papa e ai cardinali o davanti ai suoi monaci: «Tutto – diceva – è uguale, perché tutto è segno di una medesima grandezza, di questo amore divino che si fa presente nella nostra vita».

Nell’anno sacerdotale viene alla mente anche quando don Barsotti chiedeva per i preti «una fede più viva, più autentica, una fede che si traduca in un rapporto personale con Dio, con il Dio-Persona».

Al fondatore della Comunità dei Figli di Dio bastavano due versetti del Vangelo di Marco per spiegare come dev’essere il prete: «Li chiamò perché stessero con Lui e li mandò». «Quindi la prima cosa che Gesù chiede ai Dodici è che stiano con Lui. E questa – diceva Barsotti – è la cosa che anch’io chiederei al sacerdote. Siccome deve rappresentare il Signore, deve parlare in suo nome, deve esercitare un ministero che è proprio soltanto del Figlio di Dio, la prima cosa che si impone per lui è che viva e creda in quello che fa. Il sacerdote spesso non rifiuta la fede, ma cerca di pensarci il meno possibile, cerca di impegnarsi nelle opere di cui vede immediatamente il frutto, piuttosto che mantenersi nella contemplazione di quello che è il suo ministero. Il pericolo per il sacerdote è proprio questo: non riuscire a mantenersi su quelle altezze a cui lo chiama la sua vocazione e allora diviene l’uomo per gli altri, ma non l’uomo per Iddio». Anzi: Dio è spesso dimenticato, il «personaggio principale rischia di essere sottinteso e nel sottintendere rischia di sparire, almeno sul piano psicologico. L’attività del sacerdote è diventata un’attività umana, che sul piano sociale finisce per supplire alla mancanza di operatori sociali, facendo delle cose che in fondo dovrebbe già fare la società umana come tale».

Barsotti ravvisa «nell’uomo per l’uomo un’infedeltà a quella che dovrebbe essere la dottrina del sacerdozio, perché il sacerdozio, prima di tutto, implica che l’uomo sia sequestrato da Dio per vivere con Lui. Potrà essere per gli uomini solo nella misura in cui avrà saputo essere una sola cosa con Dio».«Il sacerdote – insisteva Barsotti – è legato a Dio, in quanto è Dio che lo chiama e lo vuole, ed è legato agli uomini perché il Signore lo chiama per mandarlo per la salvezza degli altri. Dividere queste due funzioni è distruggere il sacerdote. Il sacerdote non porta nulla agli uomini se non porta a Dio. Il sacerdote non evade dal mondo. È un uomo che deve essere per il mondo, ma non può essere nulla per gli altri se prima non è un uomo di Dio».

«L’unica cosa che chiedo a loro – diceva Barsotti a proposito dei sacerdoti della sua Comunità – è di credere veramente in Dio», perché «quello che si impone oggi per il sacerdote è rendersi credibile e rendersi credibile vuol dire credere veramente. Cercando di essere uguali agli altri, perdiamo di credibilità e soprattutto di efficacia».

Attraverso i suoi studi di spiritualità, le meditazioni sui misteri cristiani, ma soprattutto dall’alto della sua esperienza di maestro di tanti seminaristi, Barsotti invitava a non dividere «l’azione del sacerdote da quello che è il suo contenuto ultimo: elevare l’uomo a un piano divino, portarlo a credere veramente alla Salvezza».

«Dio rimane Dio, ovvero trascendenza infinita, sia in un mondo caotico come il nostro, sia in un mondo anche più ordinato. L’uomo si trova sempre nell’impossibilità di stabilire con Dio un rapporto vero, ma vivrà sempre per l’Assoluto e l’Assoluto soltanto potrà dare una risposta ai suoi problemi più profondi. Anzi: oggi si fa ancora più presente questo bisogno di qualcosa di fermo, di immutabile. È il momento che la vocazione contemplativa – concludeva Barsotti – si imponga di più nella Chiesa per la salvezza del mondo».