Cultura & Società

E se Noè fosse approdato in Toscana?

DI ELENA GIANNARELLIGli studi ebraici a Firenze sono stati oggetto di un convegno presso la Facoltà di Lettere della locale Università il 12 settembre scorso. Insigni studiosi hanno tratteggiato figure importanti in questo campo specifico e messo a fuoco problemi e tematiche dibattuti dal ‘400 ad oggi per quanto riguarda la storia, la cultura, la lingua di quelli che Giovanni Paolo II chiama «i nostri fratelli maggiori». Tra i tanti stimoli regalati agli intervenuti a quella giornata è riaffiorato un vecchio mito, noto da tempo agli storici ed agli addetti ai lavori, degno di essere narrato al grande pubblico. Cari toscani di origine etrusca e cari fiorentini, possiamo aggiungere ai nostri motivi di vanto quello di essere diretti discendenti di Noè. Ecco come stanno le cose.

Nel 1497 Giovanni Nanni, ossia Annio da Viterbo, scrisse un’opera intitolata Antiquitatum variarum libri, Libri di varie antichità. L’autore sosteneva di aver trovato testi di Beroso il Caldeo, nei quali si affermava come Noè, dopo il diluvio, si fosse fermato in Etruria e vi avesse fondato un regno. Uno dei discendenti, Ercole, aveva avuto un Figlio, Thuscus, che avrebbe dato il nome alla regione: la Toscana quindi sarebbe di origine aramea. Come ha sottolineato il prof. Paolo Marrassini nella sua relazione, si trattava di un modo per rivendicare il primato della civiltà all’oriente contro la Grecia e Roma. Si dibatteva infatti nella cultura della fine del ‘400 il problema di quali fossero le lingue più antiche e le più antiche espressioni culturali. Naturalmente il mondo classico, di origine greca ed ereditato da Roma, faceva la parte del leone. Firenze, considerata figlia dell’Urbe e fondata dai Romani, era chiamata la nuova Atene e questo imponeva, sul piano politico, la necessità di sintonizzarsi con quanto veniva deciso sulle sponde del Tevere. In contrapposizione a tutto questo, con un rimando forse a quanto già teorizzato nella apologetica cristiana antica del II secolo, si esaltavano le culture semitiche e coloro che i Greci, con evidente disprezzo, chiamavano «barbari». L’ebraico stesso, legato ad una precisa tradizione culturale, venne poi soppiantato, in questa ricostruzione, dall’aramaico, definito come l’idioma più antico in assoluto. Era un modo ancora più deciso per staccarsi da Roma, riconquistare origini orientali e rivendicare la propria indipendenza e libertà.

Storia strana questa, che ci viene chiarita da uno storico della filosofia e della cultura, Alessandro D’Alessandro, che ha studiato Giambattista Gelli, autore nel 1544 di un opuscolo sull’origine di Firenze, e il canonico laurenziano Pier Francesco Giambullari, il cui Gello, un dialogo di cui è protagonista il medesimo Gelli, era stato dedicato nel 1546 proprio a queste tematiche.

Il fiorentino ha origine dall’etrusco, lingua che male si può intendere senza avere nozione di ebraico e caldeo. Quest’ultima sarebbe stata la lingua primitiva, parlata da Abramo e forse da Adamo: un dialetto aramaico, che potrebbe essere l’aramaico biblico o il siriaco. Noè in Toscana è il filo diretto che rende possibile tutto questo.

Il mito comparve per la prima volta nel clima di festa delle nozze di Cosimo I con Eleonora di Toledo (1539), quando Gelli ideò e Giambullari descrisse i solenni trattenimenti. Una gran processione, carica di simboli, si snodò per le strade della Città del Fiore: le cittadine toscane, personificate, giurarono fedeltà a Cosimo e alla sua politica. Con orgoglio esse vantarono la loro antichissima origine: Fiesole, edificata dal figlio di Noè; Volterra, fondata dal patriarca identificato con Jano o Giano bifronte dei Latini; Arezzo, nel cui nome si riproduce quello di Aredia o Arezia, moglie di Noè, posta dove l’Arno «disdegnoso torce il muso», dirigendosi verso Firenze. E così via, in una serie di versi in cui il Giambullari fa sfoggio della sua creatività descrivendo la dodecapoli etrusca. Tanto per dare un’idea ecco il modo in cui viene presentata Cortona: «Verso il ciel s’alza un vago colle ameno/ sopra il qual d’alte mura intorno cinse/ costei ch’or lieta il core e sè ti dona/ Crotone Egittio e la chiamò Cortona». Cortona deriva dall’Egizio Crotone. Già, perché l’Arca di Noè era arrivata dal monte Aram direttamente sul Tevere, in Tuscia. Il buon patriarca vi aveva fondato il suo regno; alla sua morte cattivi principi si erano succeduti finché arrivarono dall’Egitto i vendicatori: Crotone e soprattutto Ercole Egizio o Libio. Fu proprio costui, uomo saggio e diverso dall’eroe omonimo delle dodici fatiche, a fondare Firenze. Da Fiesole contemplò la palude sottostante e decise di bonificarla a modo suo. Tagliò con poco sforzo il masso della Golfolina, sulla quale millenni dopo si affaticherà invano Leonardo da Vinci, e fu pronto il luogo della futura capitale. Diede anche il nome al fiume Arno, che in aramaico significa «leone vittorioso» e il simbolo della città, il Marzocco altro non è se non la fiera erculea. Così le città toscane in quel lontano 1539 riconoscevano a Cosimo, discendente di quegli antichi, il diritto a unificarle sotto il suo potere, qualunque cosa se ne pensasse a Roma. Fu un’operazione non solo politica, ma culturale: il vero sapere era quello dell’oriente, dei semiti, della Bibbia, fondato sulla parola divina e non sull’empirismo e sul sentito dire di Greci e Latini. Tutto questo fu portato da Noè in Toscana ed anche altro. Non a caso fu lui ad insegnare agli uomini la coltivazione della vite. Sull’arca giunta fino a noi ce ne doveva essere un tralcio fra i migliori.