Cultura & Società

Figure e leggende di briganti toscani

di Carlo Lapucci

La Toscana, a livello di tradizione orale è, meglio dire era, ricca di storie di briganti, le quali erano oggetto di citazione, narrazione anche nelle veglie. Tuttavia, se si indaga sulla situazione attuale di questi racconti, si nota che le storie sono pressoché tramontate col finire dell’importanza e la simbologia sociale rivestita dai briganti nel passato non molto remoto. La Maremma, che è la culla di questa tradizione, conserva ancora molti ricordi, che nel resto della regione non sono altrettanto vivi, ma direi sono quasi spenti: Gnicche, Stoppa, Tiburzi, Fioravante non accendono nessun ricordo anche nelle persone più anziane. Forse sono più vivi nella costa settentrionale i ricordi di anarchici come Caserio. L’ingiustizia delle cose umane, delle leggi e della distribuzione dei beni nella società ha fatto sì che in momenti di maggiore oppressione si sia potenziato il mito del brigante. Mitica appunto è stata questa figura nel passato prossimo della Toscana e dell’Italia, dove il brigantaggio ha costituito un fenomeno di massa dopo l’unità italiana, e tale dimensione è ancora presente nelle composizioni dei cantastorie che celebravano le gesta dei vari briganti locali nelle fiere e nei mercati.

In questa luce il brigante è il vendicatore delle ingiustizie legalizzate dei potenti e dei prepotenti, l’instauratore d’un sia pur precario nuovo ordine contrapposto a quello vigente che si presenta intollerabile.

Stefano Pelloni, detto il Passatore, fu il campione di questa tipologia di brigante-signore, di brigante-difensore dei poveri, di brigante-gentiluomo, ovvero obbediente più a un indefinito ideale di giustizia, che all’avidità della rapina e dell’accumulazione di ricchezze. Come tutti i ribelli il brigante tende a seguire, a suo modo, le leggi non scritte dell’umanità, piuttosto che quelle scritte del diritto. In genere nessun brigante muore ricco; qualcuno lascia un tesoro nascosto di cui si favoleggia ancora, come a Orentano si ricerca quello dell’Orcino.

In Toscana le gesta dei briganti sono passate anche in detti e proverbi. Il rifugio del brigantaggio toscano è la Maremma, dove le guardie non hanno potere; tuttavia i banditi vivono anche altrove, nelle foreste, sulle montagne, favoriti e ospitati dai boscaioli, dai carbonai. Aiutati dai contadini e dagli artigiani entrano nei paesi, nelle città, partecipano in incognito alla vita pubblica, nelle feste, nei teatri, per farsi riconoscere un momento prima di sparire di nuovo nella campagna ed eclissarsi nel bosco. Nel secolo scorso si assiste a un pullulare di briganti: Domenico Tiburzi è il re del Lamone, Federico Bobini, detto Gnicche, opera in quel d’Arezzo, Barbanera in Lucchesia, l’Orcino e la sua banda spadroneggiano nella zona di Bientina, il Passatore opera anche in Toscana. La Maremma è anche l’asilo di ricercati e fuoriusciti: il più stravagante è David Biscarini che usa portare infilata nella fascia del cappellaccio una coda di volpe rossa; e ce ne sono altri come Vincenzo Pastorini detto Cenciarello, Giuseppe Basili detto Basilietto, Enrico Stoppa detto Rigetto o re di Talamone, Fortunato Ansuini, Damiano Menichetti…

Erano questi il Gotha del brigantaggio, ma c’era anche l’artigianato e la manovalanza: gente che lavorava in piccolo e si nascondeva in zone più ristrette e altrettanto favorevoli: nella Val di Chiana, nelle Crete senesi, nelle foreste dell’Amiata.vTalvolta nei paesi i briganti avevano in incognito famiglia e figli, o amori segreti che alla fine li tradivano. Cavallereschi o spietati, sempre la morte li illuminava conferendo loro un alone di gloria, eroismo e sventura.

La vallata dell’Arbia, Montepescini, Murlo, Vescovado, Buonconvento, Pienza, la zona dell’Amiata, Monteroni, Montalcino, San Quirico d’Orcia, la Maremma, nella seconda metà dell’Ottocento, videro le gesta di Giovanni Turchi, detto Baicche o Bachicche, catturato nei pressi di San Quirico e condannato poi all’ergastolo. Tuttavia i briganti non hanno avuto né la forza, né il tempo per diventare leggenda. Inoltre l’epoca non li ha aiutati: le loro gesta sono documentate pressoché costantemente sui giornali: la tradizione scritta ha anticipato quella orale, definendo il fatto, abolendo l’attività fantastica, cancellando la distanza di tempo e spazio, elemento fondamentale per sfumare le figure, conferire loro una dimensione eroica, simbolica, una grandezza positiva o negativa, vale a dire quelli che sono i presupposti del leggendario. Il popolo insomma, o i suoi bardi, non hanno fatto in tempo a prestare loro la propria anima, ad assimilarli, ricrearli, riconoscervisi ed accettarli nella loro apoteosi. Sorte ancora peggiore, dal punto di vista della leggenda, hanno avuto i garibaldini.

D’altra parte i contrasti sociali si sono avviati, già nel periodo nel quale i briganti operavano, verso altre forme di protesta, di lotta. I briganti poco avevano da dire fuori dalla foresta, loro ambiente naturale, restando comunque oggetto di simpatia e d’ammirazione, soprattutto per la loro azione immediata e sbrigativa, più di vendetta che di giustizia.

Nondimeno i briganti hanno le loro saghe, i loro cantastorie che li hanno celebrati e, nel leggendario collettivo toscano, ci sono anche loro, ma presentano più un informe materiale leggendario che leggende vere e proprie.

Altra cosa, per fare un esempio, è la figura di Ghino di Tacco, il brigante medievale di Radicofani, che ha invece la sua dimensione leggendaria, della quale già per tempo si è impadronita la letteratura a cominciare dal Boccaccio.

La visita di GniccheGnicche ebbe nome Federigo Bobini e morì il 14 marzo 1871. Con un gesto leggendario si complimentò con la guardia che lo aveva colpito a morte: – Bravo, hai sparato bene! Quindi gli donò l’orologio e i soldi che aveva. Questa storia viene variamente narrata, celebrata anche dalle ottave del poeta popolare Giovanni Fantoni, nato a Figline Valdarno. Gnicche fu un brigante che cominciò ad Arezzo la sua carriera e intorno a questa città compì le sue imprese. Gli altri briganti vivevano sempre nascosti: o nelle grotte, o nelle foreste, o nelle soffitte, o nelle rovine. Gnicche no. Gnicche andava spesso a vivere nelle famiglie dei contadini o stava, come se fosse un ospite, in un paese nella casa d’un amico.Cenava in un posto e poi spariva, chiedeva a un campagnolo di preparargli un bel pranzo e poi lo pagava bene: insomma, se non fosse stato che i guadagni li faceva con lo schioppo, conduceva una vita quasi normale.

A volte si travestiva per andare a un ballo o a una festa e non aveva paura d’essere riconosciuto, perché quelli che avevano fatto la spia li aveva messi tutti sotto terra.

Una sera di festa entrò in un paese, vestito come un figurino, e andò a prendersi un caffè, sedendosi a un tavolo del bar più frequentato del posto.

Parecchi lo riconobbero e bisbigliavano:

– Quello è Gnicche…– Che vorrà?– Che sarà venuto a fare?– Non vorrà mica lasciarci il morto anche stasera?Nessuno però aveva il coraggio di chiamare le guardie e il bandito se ne stava tranquillo, dando in giro ogni tanto qualche occhiataccia che faceva accapponare la pelle a più d’uno.In quel frattempo anche il sindaco scese in piazza e andò a sedersi al tavolo accanto a quello di Gnicche. Per passare il tempo, cominciò a parlare con lui e si presentò dicendo d’essere il sindaco.– Anch’io faccio il sindaco, rispose il brigante.– Che combinazione! Venite di lontano?– Non proprio di lontano.– Non è facile questo mestiere, diceva il sindaco.– Bisogna essere pratici e decisi… allora il lavoro riesce bene.– Sì, ma quando si va a metter le tasse, le gente non ne vuol mica sapere… – continuava quell’allocco del sindaco – Fanno un sacco di storie e se potessero ti farebbero anche del male.– Dovreste fare come me – diceva Gnicche – Io vado dove so che i soldi ci sono e me li faccio dare subito senza storie.– È una parola, caro voi, quelli mica si fanno tosare come pecore, quelli graffiano, mordono, calciano…– E voi andateci col fucile, come faccio io. A me li danno subito!– A me no.– Perché voi non fate come me.– E voi che fate?– Io tasso solo la gente ricca, che non guarda al centesimo.– Ah, ah ah… siete un bel tipo voi…– Anche voi mica male! Decisione, ci vuole, credete a me, decisione…Andarono avanti un po’ con quei discorsi finché Gnicche si alzò, pagò e, salutando, se ne andò.Il sindaco, rimasto seduto, chiese ai clienti che stavano intorno.– Avete visto che sagoma?– Eccome, risposero quelli che sapevano di chi si trattava.– Ma fa davvero il sindaco, quel chiacchierone? insisté.– Sì e no. In un certo senso…– E di dov’è sindaco?– Del bosco.– Del bosco? C’è un paese che si chiama Bosco?– No: del bosco… della foresta.– Sindaco della foresta?…– Ma non ha capito ancora? – disse finalmente uno – Quello è Gnicche, il sindaco dei briganti.

Al vero sindaco prese una tale tremarella che gli cadde la tazza di mano, poi, facendo scongiuri e segni di croce, andò a chiudersi in casa, mettendo tutti i paletti, le spranghe e le serrature che aveva alle porte e alle finestre e per parecchi giorni non fu visto in giro.

La morte di MenichettiSettimio Menichetti fu bandito della Maremma, crudele e non molto amato dalle popolazioni. Nato nel 1860 a Gretini, presso Santa Fiora, soffrì del facile gioco di parole cretino. La morte, avvenuta presso Madonna della Querce il 30 settembre 1897, insieme a Settimio Albertini e Antonio Ranucci, si disse avvenuta per tradimento, per congiura in un’orgia nella quale i tre banditi erano stati storditi dal vino oppiato o alloppiato.

Settimio Menichetti fu il brigante che ereditò la macchia della Maremma alla morte di Tiburzi, ma non fu grande come il predecessore: era poco avveduto toccando gente pericolosa, incapace di farsi amici contadini e boscaioli, troppo crudele, attirandosi vendette e per una di queste morì. Avendo catturato un possidente chiese alla famiglia un riscatto eccessivo, che fu pagato, ma spinse la vittima a vendicarsi. Così, tornato a casa, il possidente, per mezzo di spie, tenne d’occhio i movimenti dei briganti e un giorno fece sapere ai carabinieri che Menichetti, con Albertini e Ranucci, era alle macchie del Crocino. I carabinieri andarono a cercarli e i briganti, che sempre s’aspettavano una sorpresa, avevano preso le loro misure, preparando postazioni e vie di scampo. Sicuri come sempre, si erano fatti portare da una casa vicina buona roba da mangiare e vino in quantità. Quando furono alla fine del banchetto i carabinieri, che erano avanzati di soppiatto, intimarono la resa. I briganti imbracciarono gli schioppi, convinti di spaventare i gendarmi e filarsela, ma le loro mosse erano quelle di ubriachi insonnoliti e maldestri. Nel vino era stato messo un sonnifero che li aveva intontiti, per cui caddero sotto i colpi dei carabinieri come dei maldestri ladri di galline.

Domenico Tiburzi e la MaremmaDomenico Tiburzi è stato uno dei banditi più famosi della Maremma. Nato a Cèllere il 28 maggio 1836, cominciò presto la sua carriera diventando col tempo notissimo e ricercatissimo dalla forza pubblica. Sopravvisse in latitanza a lungo grazie alla sua intelligenza che gli faceva trovare la strada giusta tra terrore e mito del brigante che ruba ai ricchi per dare ai poveri. Morì il 24 ottobre 1896. Oggi di Tiburzi è sparita ogni traccia: cipresso e cancello non si trovano, mentre una piccola lapide appesa a un vecchio cippo ricordano la presenza delle sue spoglie.Dopo ventiquattro anni di vita alla macchia in Maremma il Brigante Domenico Tiburzi, detto Domenichino, venne colpito dal gendarme Collecchia, agli ordini del capitano Michele Giacheri, sul Poggio delle Forane a poca distanza da Capalbio.La gente si era abituata a quell’invisibile presenza: Tiburzi era ormai un mito e il suo nome era conosciuto in tutta l’Italia, dato che nessun bandito fu latitante per un quarto di secolo. Se fu spietato con chi lo tradiva, uccidendo senza misericordia, era generoso con chi l’aiutava, attento a non commettere violenze o assassini inutili e capace anche di atti nobili. La gente insomma se non lo amava, male non glielo voleva e molti avevano per lui vera simpatia.Morto che fu Tiburzi, il corpo fu portato alla chiesa di Capalbio, ma un brigante di quella fatta, morto in combattimento senza un segno di pentimento, per la legge canonica non poteva avere sepoltura in terra consacrata. Così il parroco era deciso a metterlo fuori, quando i fedeli si mostrarono di diverso avviso, dato che non pareva loro disdicevole che Domenichino dormisse l’ultimo sonno coi loro morti.Si discusse a lungo tra il prete e il popolo finché si trovò una via di mezzo: la fossa, scavata sotto il cancello del piccolo cimitero, avrebbe permesso a Tiburzi di stare mezzo fuori e mezzo dentro, come se fosse stato nella vita mezzo buono e mezzo cattivo. Però si volle che nella terra benedetta ci fossero il busto e le gambe, mentre fuori rimanessero il busto e la testa che conteneva l’anima. Ma Tiburzi, messo un piede dentro seppe come fare e forse adoprò proprio le gambe per infilarsi dentro.Così rimase sepolto il brigante: vicino alla lapide ci crebbe un gran cipresso, ma col tempo, quando il cimitero venne ingrandito, Tiburzi entrò tutto quanto nella terra benedetta, assolto dal popolo e dal destino.

Il museo del brigantaggio a Cellere

Era il 1862 e il 1896 Domenico Tiburzi, passato alla storia come «Il re del Lamone», dal nome della selva di oltre 2 mila ettari che diventò il suo regno, fu uno dei briganti più famosi e temuti d’Italia. Visse per ben 24 anni alla macchia. Nel suo mito, benché fosse bruttissimo e piccolo di statura, tanto da essere soprannominato Domenichino, rientra anche la fama di grande amatore, di appassionato musicologo e frequentatore di artisti. A questo ingombrante personaggio, che in vita era considerato la «vergogna» del suo paese, Cellere, in provincia di Viterbo, l’amministrazione comunale ha dedicato un museo, il Museo del brigantaggio, inaugurato a settembre. A livello nazionale Il Museo del brigantaggio è il secondo dedicato ad un brigante dopo quello di Itri (Latina) dedicato a Fra’ Diavolo. La struttura, che occupa un’ex mattatoio, si trova al numero 20 di Via Marconi ed è tornata a nuova vita grazie alla volontà dell’amministrazione di Cellere egregiamente supportata dalla Regione Lazio e dalla Provincia di Viterbo.

L’originalità del nuovo museo di Cellere è che è nato senza collezioni ma sulle parole, su racconti, ricerche e interviste fatte su e giù per la Maremma tosco-laziale su come ci si viveva appena un secolo fa quando gli ultimi briganti morivano e con loro si concludeva un’epoca.

All’interno, oltre ad oggetti appartenuti a Tiburzi, o della sua epoca, sono esposti anche cimeli di altri noti briganti della Maremma viterbese che furono suoi complici: «Il curato», chiamato così per le sue manie religiose e perché portava con sé decine di santini e libri di preghiere; «Veleno», del quale si dice che fosse ancora più brutto di Tiburzi, e, forse, anche più feroce, ma non aveva il piglio del capo. Ironia della sorte, «Veleno» fu ucciso proprio da un curato (vero e non il suo complice) al quale insidiava la giovane perpetua.

In occasione dell’inaugurazione Fulvia Caruso, responsabile insieme a Vincenzo Padiglione del progetto scientifico museografico, ha sottolineato quanto il nuovo museo sia etno-antropologico e sono state ben 18 le linee di ricerca usate durante i quattro anni di lavoro. Davvero preziose per conoscere la Maremma dell’epoca, le interviste fatte tra il 2005 e il 2006 a «maremmologhi» del calibro di Alfio Cavoli, al quasi centenario Giovanni Travagliati (buttero della Marsiliana), e a quel grande scrittore fiorentino che resta Giorgio Batini, autore del celeberrimo «O la borsa o la vita», un libro ora fuori commercio che resta basilare per la storia del brigantaggio maremmano.

Il neonato Museo del brigantaggio di Cellere resta aperto al pubblico solo il sabato e la domenica dalle 10 alle 13 e nel pomeriggio dalle 17 alle 20.

Antonella Monti