Cultura & Società

Galileo, scienza e fede in dialogo quattrocento anni dopo

di Alessandro Andreini

Ci vorrà del tempo per capire in quale misura il convegno internazionale di studi su Galileo Galilei (26-30 maggio), promosso dalla Fondazione Niels Stensen di Firenze in collaborazione con le principali istituzioni che furono coinvolte con la vicenda galileiana, avrà contribuito a illuminare quel «caso Galileo» che tanta parte ha avuto nel moderno dibattito tra scienza e fede. Una cosa è certa, ed è il fatto che un evento di tale spessore scientifico, che raccoglie i maggiori studiosi dell’argomento, dalle non secondarie valenze simboliche e culturali, resterà come un contributo emblematico di questo anno in cui si ricordano i quattrocento anni dell’utilizzo astronomico del cannocchiale.

Che, tuttavia, la questione sia tutt’altro che lineare o riducibile a poche e condivise considerazioni lo si è capito chiaramente fin dalla cerimonia inaugurale, svoltasi nella basilica di S. Croce, dove è custodita la tomba di Galileo, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, del cardinal Raffaele Farina, dell’arcivescovo di Firenze mons. Giuseppe Betori, dei vescovi di Pisa e Prato, di moltissime autorità civili e militari, dei convegnisti e di un folto pubblico che ha riempito la navata centrale della basilica.

Dopo i saluti istituzionali, infatti, tra i quali quello di p. Ennio Brovedani sj, presidente dello Stensen e ideatore del convegno, le due lectiones magistrales previste dal programma hanno subito posto sul tappeto le questioni cruciali. Evidenziando anche, in un certo senso, i limiti oggettivi di qualsiasi sforzo di chiarificazione che abbia a che fare con fatti e argomenti di natura così complessa e collocati, per di più, in un contesto storico assai diverso dal nostro.

Le relazioni di Nicola Cabibbo e Paolo RossiTanto più che, dal punto di vista delle loro matrici culturali e di convinzione religiosa, i due primi relatori, Nicola Cabibbo, presidente della Pontificia accademia delle scienze e Paolo Rossi, accademico dei Lincei, si sono inaspettatamente scambiati le parti. E se Paolo Rossi ha messo immediatamente a tema l’aspetto più «scottante» dell’intera questione, vale a dire la condanna ecclesiastica nei confronti di Galileo, è toccato sorprendentemente a Cabibbo tessere quasi un «elogio» del grande scienziato pisano. Poiché, in definitiva, la vera questione in gioco sembra essere soprattutto una: in quale direzione intendiamo muoverci in questo sforzo davvero ingente di rilettura della vicenda galileiana? Galileo nella sua verità storica e scientifica, certo, ma perché non anche e forse soprattutto Galileo per noi, le sue intuizioni e la sua sensibilità di uomo, di scienziato e, perché no, di cristiano, per il cammino che sta davanti all’umanità del nostro tempo?

Nella sua celebre poesia dedicata ai nobili sepolcri di S. Croce, Ugo Foscolo sottolineava come quelle tombe accendessero l’animo «a egregie cose», evocando, fra le altre, anche l’eredità di Galileo Galilei. E verrebbe da dire che proprio di questa ammirazione si è fatto interprete Nicola Cabibbo, tratteggiando l’originalissimo contributo di Galileo alla scienza moderna. Non tanto le pur grandi scoperte, ha precisato, quanto il metodo, ovvero lo sguardo nuovo con cui egli seppe osservare la natura e interrogarla. Si pensi, ha esemplificato, al cosiddetto «esperimento mentale», che immagina teoricamente una situazione fisicamente irriproducibile, ma in cui l’evidenza dell’analisi conduce a un risultato indiscutibile: un tipo di esperimento che sarebbe stato decisivo, anni e secoli dopo, anche per il lavoro scientifico, fra gli altri, di Isaac Newton e di Albert Einstein. È di questa vasta apertura mentale che dobbiamo esser grati a Galileo, interrogandoci a fondo da dove gli venisse questo sguardo nuovo, che arrivò addirittura a indicare nella rotazione dei satelliti di Giove, da lui scoperti, il «meccanismo» naturale di un originalissimo «orologio cosmico»: idea, ha ricordato Cabibbo, a partire dalla quale, decenni dopo, si giunse alla prima misura della velocità della luce!

Da parte sua, la lezione di Paolo Rossi ha preso il via da una domanda di tipo storiografico, circa la legittimità per degli storici di ergersi a giudici di eventi della storia: questione cruciale, se si pensa alle tante «leggi della memoria» che condannano oggi fatti e idee del passato. Questione che, ultimamente, tocca lo statuto stesso della verità. Sì, si chiedeva un contemporaneo di Giordano Bruno in una lettera citata da Rossi: per quale «assoluto» ha scelto di morire un uomo come Bruno, che non credeva in un Dio cui appellarsi per le sue idee? Non sarebbe stato meglio dissimulare, come suggeriva Descartes alcuni anni dopo e come hanno l’abitudine di fare tanti nostri contemporanei, o forse tutti noi, secondo la sottolineatura di Rossi? Siamo di nuovo al punto chiave del convegno, ci sembra: davvero Galileo sarebbe stato un così appassionato indagatore della natura se non avesse creduto a una qualche verità da raggiungere? E come rendere viva, per noi, questa passione? A noi pare questa la domanda cruciale che incrocia fino a oggi il nostro cammino di uomini e di credenti. E intorno alla quale ruota, in fondo, tutto il «caso» Galileo.