Cultura & Società
Generazione irripetibile
Chi, come noi, si ostina a pensare che la canzone possa anche essere una cosa un po’ più seria di quella che ci viene ultimamente propinata al Teatro Ariston ha comunque di che consolarsi. «Io non mi sento italiano» dell’indimenticabile Giorgio Gaber e «Lampo viaggiatore» di Ivano Fossati sono in testa alla classifica degli album più venduti. Lo stesso Fossati, attualmente in tour nei teatri italiani, sarà a Firenze il 12 aprile, ma già questa settimana, venerdì 28, il capoluogo toscano vive un evento-cult di prim’ordine, il ritorno al Palasport di Francesco Guccini. Il pienone, come sempre, è assicurato, e come sempre vedremo presenti tra il pubblico sia i coetanei dell’ormai ultrasessantenne cantautore di Pàvana che i giovani e giovanissimi non ancora nati al momento in cui la sua carriera era già al culmine. Un fatto che ancora una volta testimonia come la grande stagione dei cantautori italiani sia tutt’altro che al tramonto, nonostante la loro età nonché le dolorose perdite di Gaber e, quattro anni fa, di Fabrizio De André.
Ne parliamo con Massimo Bernardini, da molti anni responsabile del settore spettacoli di Avvenire e attuale conduttore della trasmissione di Sat 2000 Il grande talk. «Quando, negli anni ’70, venne alla luce questa canzone d’autore molto colta ricorda si pensò che la musica leggera fosse a una grande svolta, e anche negli anni ’80 la discografia italiana continuò a investire tantissimo sui cantautori, nella convinzione che rappresentassero il filone forte. Ma a 30 anni di distanza si può affermare che quella stagione è stata un’anomalia: una pattuglia di non più di dieci persone verso cui si è orientato il consumo musicale per diversi anni e che poi è rimasta stabilmente dentro il mercato».
Come nacque, allora, questo fenomeno?
«Si potrebbe quasi dire che erano cantori strappati alla biblioteca: del resto, De Gregori viene da una famiglia di bibliotecari e insegnanti e così, in parte, Venditti. È stato un piccolo gruppo di gente colta, le cui canzoni, secondo me, hanno rappresentato in qualche modo, la sostituzione della poesia, ormai ridotta a fatto elitario, e sono stati capaci di veicolare interrogativi profondi proprio perché hanno usato la canzone in maniera anomala. Adesso, nel 2003, ci rendiamo conto che De André, Gaber, De Gregori, o Paolo Conte, tanto per citarne alcuni, hanno rappresentato un’anomalia, tra l’altro molto italiana, perché anche i grandi song writer americani non hanno testi di questo livello, il peso letterario che si trova, ad esempio, in Roberto Vecchioni e che veramente non si è visto da nessun altra parte».
Certamente, anche il ’68 avrà giocato un ruolo importante nella formazione di questa pattuglia…
«Va detto anzitutto che agli inizi del ’68 c’era una domanda esistenziale forte, ridotta poi purtroppo solo a politica. Comunque, se si può dire che tutti, o quasi tutti, abbiano una matrice di sinistra che li connota, è anche vero che non è questa la chiave decisiva di lettura della loro produzione. In realtà ognuno di loro ha fatto un lavoro di ricerca d’autore mantenendo una linea di rigore profonda, ed è questo che il pubblico ha apprezzato, permettendo loro di mantenere ancora un plafond minimo di 300 mila copie a ogni nuova uscita».
Un’eredità dunque difficile da raccogliere, la loro. C’è qualcuno, tra i giovani, in grado di farlo?
«Potrebbero essere Daniele Silvestri o Samuele Bersani, ma con altre caratteristiche: un rapporto molto più ricco con la musica e pur scrivendo testi importanti un background culturale più povero rispetto alla pattuglia degli anni ’70, che anche per questo, secondo me, resta irripetibile».
Della canzone commerciale, invece, cosa possiamo dire?
«Che ripete se stessa. E che non si può neppure più parlare di canzone commerciale, perché la discografia è in crisi nerissima in tutto il mondo, una crisi che non si era mai vista prima e che, secondo me, è l’effetto finale di una saturazione dell’offerta, attraverso una molteplicità di mezzi. Negli anni ’70 era diverso, l’unicità del disco era fondamentale, non c’erano neppure le radio libere: invece oggi non c’è più, da parte del pubblico, l’idea dell’uscita di un nuovo album come evento culturale: è una cosa che scivola in qualche modo sul mercato e chi lo sa se andrà. Poi sono molto cambiati anche i produttori di dischi: oggi sono solo stampatori, mentre una volta la discografia era veramente un interlocutore molto valido per un artista, e questo comporta una grossa perdita anche a livello di qualità perché viene a mancare il confronto: non per niente anche da nomi grossi arrivano da tempo prodotti deludenti. Il settore discografico ormai è ridotto all’usa e getta, non ha più intenzione di investire nel tempo: nessuno fa crescere nuovi talenti, tutti sono interessati a bruciarli in fretta, a partire da chi il talento ce l’ha e vuol far soldi in fretta, come può essere accaduto anche a gente brava come Ligabue. Ma è una follia, perché oggi la discografia mondiale sta in piedi solo sul catalogo, senza il quale avrebbero chiuso tutti da un pezzo: e catalogo vuol dire che gente come Guccini o come Battisti continua stabilmente a vendere tutto la sua produzione. Se una casa discografica ha al suo interno artisti che ha fatto crescere, continueranno a dare fatturato nel tempo, e fatturato pulito su cui non c’è da investire più niente; se invece si butta nella politica miope dell’usa e getta come si sta facendo oggi non ci sarà più un passato cui attingere».