Cultura & Società

Giampiero Maracchi: dal climatologo la ricetta per un tempo migliore

Non a caso a metà febbraio, per acclamazione, è stato chiamato alla guida dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze: dal 2009 sedeva già in consiglio come vicepresidente di Jacopo Mazzei ed è stato forse naturale affidargliene l’eredità. All’«uomo che studia il tempo» (un gentile signore elegantemente vestito all’inglese, barba sbarazzina e pipa a portata di mano) mi viene spontaneo chiedere subito: è più difficile fare previsioni meteorologiche o esplorare gli orizzonti dell’economia per indicare i tempi di uscita dal tunnel della crisi? Mi risponde con occhi penetranti, che mettono in guardia.

È fuori dubbio che sia più facile fare previsioni meteorologiche o climatiche, però c’è un collegamento tra l’aspetto che riguarda il clima e i tempi di uscita dal tunnel della crisi. C’è infatti un punto – lo dico da 20 anni! – che non viene purtroppo compreso. Siamo alla fine di un’epoca, iniziata 5 o 6 secoli fa, e all’inizio di un’altra. È finito un modello e c’è necessità di un altro. Quindi i tempi di superamento della crisi dipendono da quando sapremo trovare e mettere in pratica un nuovo modello. Lo dico non tanto da climatologo, quanto, senza darmi arie, da «intellettuale», anche se questo è un termine un po’ troppo abusato.

Professor Maracchi, che effetto le fa apprendere di fabbriche, negozi e botteghe artigiane che chiudono, di vedere cartelli appesi ai palazzi con le scritte «affittasi» o «vendesi», delle statistiche che parlano di 7 milioni di poveri, del 38,7 % di giovani disoccupati, un record per l’Europa ? Concorda con gli economisti: è la più grave emergenza dell’ultimo secolo?

«Direi di più: non è un’emergenza , ma – riprendendo un concetto espresso prima – è la naturale conseguenza di quello che abbiamo creato in cinque secoli. Non poteva essere che così. Come aveva messo in evidenza il Papa nella sua enciclica, i segnali di questa crisi partono dagli inizi degli Anni Ottanta. Se avessimo avuto voglia di ascoltare, ci saremmo resi conto che questa era inevitabilmente la fine di un periodo. Quando si è parlato di Finanza creativa, non ci si è resi conto che è il lavoro che crea ricchezza, che trasforma la materia prima. La crisi si è aggravata anche perché si è persa la percezione che ci sono alcune esigenze primarie dell’uomo (mangiare, abitare, vestirsi) che sono prevalenti su tutto, che vengono prima di chattare, usare il calcolatore, mandare messaggi con il cellulare – le cosiddette moderne tecnologie – utili ma di cui siamo un po’ troppo schiavi. Si può campare senza telefonare, ma non si può vivere senza mangiare. Si è insomma smarrita la cognizione dei fatti fondamentali della vita. Il materialismo e l’eccessivo consumismo ci hanno portato al capolinea. La società di domani avrà bisogno di altri fattori, di minor mercato e risorse sostenibili, di maggiore partecipazione».

Quali sono allora le priorità della Fondazione Ente Cassa di Risparmio? Quest’anno avete 25 milioni di euro da distribuire in Toscana nelle province di Firenze, Arezzo, Grosseto, in Lunigiana. Quali settori state privilegiando?

«Le nostre priorità, in questo difficile momento, continuano ad essere i giovani e l’occupazione. Da tempo stiamo procedendo in questa direzione. Vogliamo proseguire su questa strada, cercando di attivare interventi incisivi nel campo dell’economia. Del resto negli altri Paesi europei le Fondazioni sono da sempre corpi intermedi di cui è ampiamente riconosciuta l’utilità. In Italia hanno una storia un po’ diversa, in quanto sono di origine bancaria, ma devono andare nella direzione delle istituzioni europee che svolgono un ruolo estremamente importante. Mi riferisco a quanto avviene nei Paesi anglosassoni, ma anche in Francia e in Germania».

Mi diceva: giovani e occupazione prima di tutto. Con quali politiche di rilancio?

«Per i giovani abbiamo istituito borse di studio per l’artigianato, organizzando corsi di formazione insieme agli enti locali e alle associazioni di categoria. Ne sono un esempio il sostegno che da anni diamo alla Scuola di Scienze Aziendali e all’Istituto Artigianelli, dove abbiamo tra l’altro finanziato importanti lavori di ristrutturazione. Si è pure contribuito a tenere in vita una Scuola di ceramica, abbiamo rapporti con la Scuola di design che prepara le nuove leve per l’abbigliamento, per la moda, le calzature e gli accessori. Un aiuto concreto a quelle forme di istruzione professionale che preparano i giovani da immettere sul mercato del lavoro».

Dire che non è un periodo facile per le Fondazioni bancarie è un eufemismo. Qui abbiamo la vicenda MPS che è sotto gli occhi di tutti, con responsabilità politiche e di manager. Un duro colpo per il nostro territorio…

«Se penso al dibattito di queste settimane proprio sul ruolo delle Fondazioni osservo che queste sono sostanzialmente già fuori dalle banche, ma purtroppo vediamo spesso che sui giornali si fa una grande confusione su questo tema. Banche Spa e Fondazioni sono due cose diverse. Diverso è il loro quadro normativo. Le prime erogano il credito. Le Fondazioni (anche se qualcuna, come quella di Siena, ha mantenuto la sua presenza nell’azionariato MPS oltre il 30 per cento) invece non hanno fini di lucro, ma facilitano la ricerca e la formazione professionale, l’organizzazione di mostre ed eventi culturali. Questo va chiarito nell’immaginario collettivo, convinto – ahimè – che banca e Fondazione siano la stessa cosa. Non è vero».

Però se le banche «sane» – aggregatesi in Gruppi a livello nazionale – usano con parsimonia la leva del credito è difficile uscire da questa recessione. Tornando a voi, avete sufficiente autonomia per esercitare un ruolo propulsivo in Toscana?

«Le banche, lo dico come cittadino, sono purtroppo condizionate dalla nuova normativa di Basilea e dalla nuova organizzazione. Se un cliente che fa richiesta di prestiti non rientra in certi parametri, non ottiene finanziamenti. Le nostre Fondazioni, come ho detto prima, non possono fare credito e nemmeno esercitare una funzione di stimolo. Non abbiamo gli strumenti di carattere normativo per farlo. Anche se i rapporti di Ente CrFirenze con Intesa San Paolo sono buoni. E non possono essere che buoni. Ho poi un personale convincimento: più le Fondazioni sono lontane dalle banche meglio è. Detto questo, per quel che ci è consentito, cerchiamo di non venir meno ad un ruolo propulsivo».

Lei ha sempre avuto una sensibilità particolare per l’artigianato. Soprattutto per quello artistico. Come prospettare oggi ai giovani gli antichi mestieri ed invogliarli a praticarli?

«La mia convinzione è che in un Paese che ha una tradizione millenaria e che non ha partecipato ad uno sviluppo tecnologico sfrenato come gli Stati Uniti, quello che possiamo spendere è offrire grandi prodotti di qualità se non di lusso e creare grandi cose, come sta già facendo l’enogastronomia. Cosa può invogliare i giovani? Tramite l’Osservatorio dei mestieri d’arte (OmA) abbiamo dato vita a “Blog Contest”, un concorso per favorire i giovani artigiani fra i 20 e i 40 anni, dando loro la possibilità di presentare un progetto professionale nel comparto dell’artigianato artistico. Per il vincitore è in palio un premio del valore di 5 mila euro: copriranno l’acquisto di materiali e strumenti di lavoro, consentiranno di frequentare corsi di perfezionamento anche attraverso percorsi di internazionalizzazione, di partecipare a una fiera o realizzare un evento espositivo. Oltre a essere una risorsa in termini economici, l’artigianato artistico rappresenta un patrimonio culturale inestimabile. Va sostenuto perché sta affrontando due grosse sfide: una cattiva globalizzazione, che spesso inquina la concorrenza e minaccia i mercati di tradizione; un difficile ricambio generazionale,  che riduce l’innovazione nelle oltre 300 imprese registrate nel solo comune di Firenze».

Altre iniziative?

«Un nuovo esempio. Sempre tramite l’Osservatorio per i mestieri d’arte, con la collaborazione del Polo Museale fiorentino, abbiamo finanziato un progetto di restauro proposto e realizzato dal Liceo Scientifico Leonardo Da Vinci di Firenze, che ha visto impegnati una cinquantina di studenti, un’occasione per orientare le loro scelte post-maturità. Ma anche nei settori dell’artigianato cosiddetto di servizio dobbiamo rivolgere la nostra attenzione, perché c’è sempre bisogno di bravi meccanici, imbianchini o lavoratori dell’edilizia».

Istituzioni culturali ed artistiche bussano alla porta della Fondazione. Le risorse si sono ridotte e forse dovrete dare finanziamenti più mirati. Quali sono i vostri interventi più qualificanti?

«Abbiamo cercato di ridurre i contributi a pioggia. Per il futuro ci sarebbe l’idea di fare aggregare il più possibile queste istituzioni o attività minime. Alcuni interventi rimangono strutturali: vedi quelli alla Fondazione Palazzo Strozzi per le mostre, al Comune di Firenze; al Museo del Novecento in piazza Santa Maria Novella, che raccoglierà importanti collezioni fiorentine disperse in varie sedi, riunendole in un unico complesso secondo una vecchia idea del professor Carlo Ludovico Ragghianti. Siamo inoltre impegnati nel progetto di ristrutturazione delle Oblate di via Sant’Egidio, dove nel 2014 dovrebbe essere completato il Polo di aggregazione giovanile: sarà il più grande di Firenze. Dobbiamo inoltre ricordare l’apporto che abbiamo dato, insieme al Comune, al salvataggio della Pergola, creando una Fondazione che consente ad uno dei più importanti teatri d’Europa di proseguire la sua attività. Così come credo non vada dimenticato l’aiuto che diamo ad istituzioni importanti come l’Accademia dei Georgofili, la Società di San Giovanni, ai Musei Stibbert ed Horne».

Tornando allo sviluppo economico, mi pare che l’Ente Cassa voglia imprimere un passo più deciso sulle infrastrutture, in particolare sull’aeroporto. Volete anche contare di più nella gestione?

«Più che contare, bisogna fare le cose. Ritengo che il potenziamento dell’aeroporto (che ora, mi scusi la battuta, è poco più di una tabaccheria!) sia una delle priorità per il rilancio dell’economia della città e del territorio regionale. Ricordiamoci che la Toscana è ricca di Distretti importanti che sono stati – e lo sono ancora – in grave sofferenza. L’Ente Cassa, con le sue risorse, non potrà risolvere tutti i problemi, ma certo intende battersi e sostenere lo sviluppo di Peretola, per rilanciare il turismo di qualità e superare quello di basso livello che sporca, rovina ma non investe. In un Paese normale si dovrebbe anche trovare una ragionevole intesa con Pisa».

È considerato uno scienziato di fama internazionale per aver saputo creare e diffondere in Italia una cultura della climatologia. In Toscana, alla fine degli Anni Settanta, ha fondato l’Ibimet (l’Istituto di biometeorologia) e con la Regione il LAMMA, un Laboratorio meteorologico di primordine. In molti anche all’estero hanno guardato a queste esperienze?

«Mi consenta: sono orgoglioso delle sei istituzioni che ho creato in più di 40 anni di lavoro e di ricerca, ora portate avanti da alcuni miei allievi della Facoltà di Agraria di Firenze, che complessivamente danno lavoro a più di quattrocento persone, per lo più ricercatori. Il LAMMA è la più visibile e la più nota, perché si occupa di previsioni meteorologiche. Il gruppo di lavoro che ho costituito a Firenze, non lo dico per vantarmi, è il primo in Italia ed è di livello internazionale anche per gli incarichi e riconoscimenti che io ed i miei allievi di Firenze, Roma e Bologna abbiamo avuto all’estero. Abbiamo creato una rete scientifica importante. Avremmo potuto fare di più con maggiori risorse».

Da scienziato può dire che in Italia e soprattutto qui in Toscana si investe nella ricerca? Oppure è il contrario?

«Si è sempre investito poco. E ora che ci sono meno soldi si investe ancora meno nella ricerca. Purtroppo a volte si spende anche male. Siamo disorganizzati. Da noi ognuno fa come vuole, zappa il proprio orticello, magari ritenendosi un genio».

Per i suoi incarichi e impegni di studio lei ha girato e tuttora gira il mondo. Il brand Firenze-Toscana è ancora vincente? O ci rimproverano qualcosa?

«Firenze nell’immaginario mondiale è sempre un punto di riferimento, un’attrazione importante. Non credo che gli altri ci rimproverino qualcosa, forse siamo noi a doverlo fare: siamo troppo adagiati su noi stessi per il fatto che abbiamo avuto antenati illustri come Michelangelo, Brunelleschi, Galileo. La spinta si è arenata nelle grandi famiglie, nelle istituzioni e nella città, che invece avrebbe tutti gli elementi per rilanciarsi e invece si sta assottigliando: ogni giorno chiude un esercizio storico».

Ritorni per un attimo «l’uomo del tempo». Che previsioni fa per la prossima estate ? E guardando più lontano, avremo altri sconvolgimenti nel pianeta?

«C’è un fenomeno estivo ormai ricorrente, quello delle ondate di calore, in crescita negli ultimi dieci anni. Lo avremo anche quest’anno. Il 2013 sarà comunque caratterizzato anche dalla pioggia: lo abbiamo visto nelle ultime settimane».

Ha una ricetta per vincere l’incubo delle alluvioni?

«Questa preoccupazione esiste e mi pare sia stata purtroppo sottovalutata. In questi anni non si è fatto praticamente nulla. Bisognerebbe avere un piano di emergenza per salvare Firenze. Non è una cosa semplicissima, comunque penso ad un’espansione sulla riva destra dell’Arno a Nord di Firenze, nelle campagne del Valdarno. Se guardiamo ai dati statistici, balza subito l’urgenza di occuparcene. Le alluvioni hanno una ricorrenza di 100 anni. Ne sono passati 50 da quella del 1966, quindi… è l’ora di correre ai ripari».

La schedaE’ un personaggio davvero singolare, che ogni giornalista vorrebbe conoscere e raccontare. Certo non ci si annoia nell’ascoltarlo quando, con modestia, snocciola le sue «imprese». Sono oltre quattrocento le pubblicazioni scientifiche, tecniche e didattiche che hanno coronato e scandito, in quasi quarant’anni, la partecipazione del professor Giampiero Maracchi a importanti convegni internazionali, al coordinamento in Italia e all’estero di progetti sulle applicazioni della climatologia e della meteorologia per gli effetti sull’agricoltura, sui suoli e sulle lavorazioni industriali. Ma ancor più risaltano nel suo curriculum alcune particolari «creature». Maracchi è stato infatti fondatore e già direttore dell’Istituto di Biometeorologia del CNR, dove un gruppo di ricerca svolge un’attività di studio sullo sviluppo rurale, con l’obiettivo di recuperare la produzione di antiche fibre tessili come la canapa, il lino e la ginestra per creare occupazione e dare vita a nuove aziende. Fondatore e presidente del Centro studi per l’applicazione dell’informatica in Agricoltura, nonché del Laboratorio per la meteorologia e la modellistica ambientale della Regione Toscana (LAMMA), autore di importanti iniziative per conto dell’Accademia dei Georgofili , di cui è vicepresidente. A lui si deve anche l’Osservatorio dei Mestieri d’arte (Oma), voluto dall’Ente Cassa di Risparmio per far conoscere e valorizzare l’artigianato artistico. Se per le previsioni climatiche e meteorologiche da qualche anno si affida ai satelliti artificiali che permettono di esplorare fenomeni e cambiamenti con una precisione ed un’esattezza prima sconosciute, Maracchi è però convinto dell’affidabilità di agricoltori e contadini come meteorologi («Il 60-70 per cento dei proverbi sul tempo corrisponde al vero»). Tanto che da anni, in coda al Tg3 regionale del sabato, tiene una rubrica (che ha un nome un po’ da bar, come spesso ama sottolineare, che si chiama «Il Maracchi») nella quale si diverte a fare un confronto fra la visione scientifica del tempo e del clima e quella tradizionale, sintetizzata nei detti del mondo agreste.

Artigiano del cuoio, del legno e dei metalli. Pochi sanno che il Professore fabbrica i mobili di casa sua, crea oggetti in ferro battuto, e – questo è per noi l’aspetto più divertente – confeziona con le sue mani le scarpe che porta ai piedi. Con libri illustrati editi dalla LEF e da Polistampa, ha cercato di insegnare ai giovani l’arte di fabbricare zoccoli, sandali e cappelli, l’arte di intrecciare fibre, rametti, cumi di piante, scorze: una delle più antiche attività umane. Nell’era dei satelliti e dell’alta tecnologia, Giampiero Maracchi vuole insomma dimostrare che gli antichi mestieri sono ancora indispensabili all’uomo del Terzo Millennio.